No, questa volta non sono d’accordo con Claudio Velardi, con i liberal ds di LibertàEguale, con Emanuele Macaluso. Sul caso Unipol-Consorte, non ci si può fermare al sospetto personale per il conto che il manager della compagnia bolognese aveva alla Bpi, e per questo far questione di principio sul fatto che il vertice del Botteghino deve scaricarlo, perché guadagnare personalmente su compravendite azionarie è riprovevole. E si può invece aprire gli occhi su quanto sta avvenendo per effetto dell’equiparazione tra chi ammette di aver truffato i propri correntisti e i propri soci, e chi invece guida da molti anni una compagnia assicurativa cresciuta a dispetto dei santi, e che contro i santissimi si è candidata a rilevare Bnl. Sorvolo sull’incongruenza logica di affermare – come fanno numerosi tra gli esponenti che ho citato e dai quali dissento – “non c’è illecito ma comunque Consorte deve farsi da parte”, perché sono convinto che se non c’è illecito non si capisce proprio perché non Consorte, ma chiunque debba farsi da parte da qualunque incarico. Fino a prova contraria, Consorte non sta affatto reagendo come Fiorani. Il capo della Bpi è rimasto per mesi silenzioso di fronte alle accuse, e ora se ne capisce il perché, né mai ha fatto deliberare al cda del suo istituto esposti a Consob e magistrati come quelli che il vertice di Unipol ha invece avviato, per segnalare il danno patrimoniale sopravveniente a una società quotata da un bombardamento mediatico delle proporzioni di quello riservato a via Stalingrado. Consorte spiega, reagisce e ribatte, e se può non bastare questo solo fatto a convincere i sospettosi moralizzatori cresciuti legittimamente in casa ds, certo la differenza rispetto a Lodi si avverte tutta. Tranne che in due casi: per chi ritiene che l’eventuale danno elettorale e di opinione pubblica provocato dall’equiparazione debba essere comunque immediatamente risolto a prescindere dai fatti, e per chi invece è proprio convinto che sia un bene, che Unipol venga abbattuta nel suo vertice e nel suo disegno di crescita, e che in ciò ci sia una lezione per una parte del partito che in questi anni, così si usa dire, è stata troppo “spregiudicata”. Il secondo caso configura l’estremo al quale può giungere in Italia la lotta senza quartiere interna ai partiti, ormai anche in quelli di più radicata tradizione storica ispirata alla compattezza. Ma il primo caso, invece, quello che cioè riguarda i numerosi critici sicuramente ispirati da animo retto e non da furore antidalemiano, a mio modestissimo giudizio confonde l’etica del mercato con la caccia alle streghe. E così facendo, accoglie purtroppo il paradigma di chi questa campagna ha ispirato e animato, sui mezzi d’informazione assai prima e più che con gli atti giudiziari.
Un paio di esempi, per essere chiari. Ieri il quotidiano della Fiat è incappato in uno scivolone che non esito a definire esilarante. Non parlo dell’omelia domenicale spinelliana, nella quale naturalmente si prestava il dovuto omaggio all’etica kantiana dell’imperativo categorico, prima di una messa all’indice del presente sito, e di qui concludeva in una messa al bando del vertice diessino contagiato per rigurgito veteromarxista dal cinismo vorace di mercato che per tanto tempo si era combattuto, e che ora sostituirebbe nell’animo dei suoi ex nemici la smagata disillusione della fine delle ideologie. Quando Ferrara accusa di odiare la cultura della vita i neonichilisti che vogliono la ricerca scientifica, il salto logico è del tutto analogo. Ma, ripeto, non mi riferisco alla Spinelli, che leggo da anni e continuerò da modesto cronista a leggere. Mi riferisco invece allo stupefacente articolo che il quotidiano torinese pubblicava a pagina 2. La prova provata che Fiorani e i suoi “collegati” mentivano al mercato e costituivano un’associazione a delinquere, secondo le rivelazioni dell’articolo, sta nel fatto che da ben prima di aver rivelato alla Consob, nella scorsa primavera, l’intenzione di lanciare una contro-opa rispetto agli olandesi su Antonveneta, da dicembre del 2004 Fiorani aveva firmato contratti di equity swap con istituti esteri come Jp Morgan, Dresdner Bank e altri, volti a subentrare ai medesimi istituti nella proprietà di titoli Antonveneta che questi avessero nel frattempo acquisito sul mercato. “Un piano a più mani, studiato con largo anticipo rispetto alle date finora conosciute, studiato a tavolino in barba alla trasparenza”, sferza il quotidiano della Fiat. Ora va bene prenderci per polli, ma a tutto c’è un limite. E’ possibile mai che il giornalista che firma il pezzo, e che lo stimato Giulio Anselmi che firma il giornale, non si siano resi conto che i contratti antedatati di equity swap con istituti stranieri sono stati esattamente il metodo seguito da Ifil-Exor per risalire al rango di primo azionista Fiat, senza dirlo nel frattempo né alle banche che credevano convertendo il prestito da 3 miliardi di divenire loro soci primari, né al mercato né alla Consob mentre il titolo saliva e la famiglia Agnelli in due comunicati a fine luglio e fine agosto dichiarava di non sapersene proprio spiegare il perché? Noi che tecnicamente seguiamo il mercato, sappiamo bene che a Torino fini menti giuridiche come l’avvocato Grande Stevens e finanzieri di prim’ordine come Gabetti architettarono la cosa sapendo bene che nel Testo Unico della Finanza c’è un buco normativo, grazie al quale i contratti futures non vengono equiparati a compravendita di titoli reali, e dunque non bisogna avvertirne la Consob. Il che non legittima però mentire dicendo che non si sa perché il titolo sale, come fecero gli Agnelli. Noi siamo ancora in attesa di leggere una sola riga sul bollettino della Consob, in merito all’indagine che l’autorità che vigila sul mercato finanziario fu costretta ad aprire di fronte alle proteste di pochi matti come chi qui scrive. Ma è del tutto stupefacente, dopo aver difeso il metodo seguito da Ifil in Fiat, che il quotidiano della stessa Fiat ora additi esattamente la stessa procedura come prova provata della criminalità di Fiorani e Consorte. In che cosa sbagliamo, amici moralizzatori? Abbiamo le traveggole noi e scambiamo lucciole per lanterne? Oppure è evidente, che il doppiopesismo rivela che contro l’opa su Bnl – naufragata com’è ormai quella su Antonveneta – è in atto un semplice violentissimo regolamento di conti, nient’affatto quel ripristino dell’etica di mercato violata da nichilisti senza ethos né pathos?
Non farà fine dirlo, ma quando si vedono direttori di grandi quotidiani sfondare le reni a partiti di qua e di là, e poi cinguettare insieme in convegni pubblici in cui dettano tempi, modi, condizioni, agenda e leadership del partito democratico nascente sulle ceneri dei defunti e presunti “amici dei furbetti”, il sospetto di una colossale macchinazione viene per forza. Vi siete resi conto, amici moralizzatori in buona fede, di come Mieli abbia decretato lo spall-arm non appena Monti ha violato la consegna, e invece di inneggiare al successo pieno già raggiunto con le teste nel cesto, ha chiaramente detto che nel coro di chi inneggia alla vittoria ci sono personaggi non meno esecrabili delle vittime attuali? Forse non lo avete capito, che si riferiva a banchieri che stanno riveriti in Mediobanca e nello stesso patto Rcs? Come dite? Che vi sembra secondario, rispetto al fatto che la sinistra e i Ds devono essere comunque più mondi del sospetto della moglie di Cesare? E come è possibile, che pensiate davvero che in lotte di mercato e politiche tanto aspre, non valga il vecchio detto di Oscar Wilde, per il quale la moralità è semplicemente l’atteggiamento che adottiamo verso chi ci sta personalmente sulle scatole? Se la politica tra i Ds ha ancora un senso di dignità e di rispetto per la propria storia – e sono sicuro di sì – prima di accettare di buttare nello sciacquone vent’anni di risanamento e crescita di Unipol bisognerebbe avere ragioni migliori, che quelle dei predicatori in casa d’altri come quelli di Torino.