Le ragioni della violenta offensiva scatenata a partire da questa estate dall’attuale gruppo dirigente della Fiat e della Confindustria e dai suoi principali alleati contro i Ds sono abbastanza semplici. Da un lato, le precarie condizioni finanziarie in cui versano alcune grandi aziende hanno reso i loro proprietari (o i loro amministratori) particolarmente sensibili al tema del controllo delle banche, spingendoli a perseguire con ogni mezzo un accordo con istituti stranieri capace di placarne (auspicabilmente) gli appetiti e al tempo stesso di consolidare la propria traballante posizione interna. Dall’altro, il tramonto del berlusconismo ma al tempo stesso la tenuta della “presa” di Berlusconi sul centrodestra ha posto prepotentemente il tema degli equilibri interni in un centrosinistra in cui, dopo l’esperienza del governo D’Alema, la componente post-comunista dispone di un grado di legittimazione molto maggiore del passato. In questo quadro, l’effetto combinato del prevedibile successo dell’opa di Unipol su Bnl e di quello clamoroso delle primarie, la conseguente sconfitta del tentativo di colpire la leadership di Prodi, il rilancio del processo unitario ma anche la difficoltà da parte dei Ds di interpretarlo in modo meno burocratico, hanno indotto a rispolverare i toni e l’armamentario dell’antipolitica dei primi anni novanta e a scatenare un’offensiva senza precedenti contro il principale partito di opposizione.
Tralasciamo per un momento le considerazioni che ciò indurrebbe a fare circa la drammatica urgenza di un grande partito riformista e democratico capace di impostare su basi più sane il rapporto tra la politica e il sistema degli interessi e di rendere il processo di selezione delle candidature, di definizione del programma e di individuazione dei ministri più democratico di quello attuale (dopotutto potremmo definire l’offensiva di Confindustria come la manifestazione più patologica dell’assenza di una democrazia fondata su partiti veri e della conseguente sostanziale mancanza di regole in cui si svolge la formazione delle liste); ciò su cui vorremmo soffermarci riguarda lo strumento principale di questa offensiva (la stampa) e i suoi artefici: gli intellettuali antitaliani.
Nel corso degli ultimi cento anni, i connotati del ceto intellettuale impegnato nelle ricorrenti battaglie “di opinione” contro la politica e i partiti mostrano una sorprendente continuità. Può essere tracciata un linea che ha attraversato la storia italiana, e che è stata interpretata da generazioni diverse, con numerosi passaggi di testimone tra i vecchi e i giovani di questo ceto di intellettuali borghesi continuamente rigenerato. Il loro esordio si è avuto nell’età giolittiana, in quell’opposizione interpretata dal “Leonardo” e dalla “Voce”. La loro prima vittoria politica è stata il Maggio Radioso, e la loro capacità di trascinare il paese in guerra. Da qui l’infatuazione per il Mussolini interventista, e il loro approdo al fascismo, per lo più nella comoda posizione del fascismo di sinistra, quello in cui si concentravano gran parte degli intellettuali militanti, impegnati nel giornalismo e nella polemica spicciola. Hanno fiutato per tempo la rovina della nazione, e durante la Seconda guerra mondiale alla spicciolata si sono rifatti una verginità traghettandosi nel campo del marxismo: non però nel comunismo maggioritario in Italia, quello che si fondava sul Pci e sul binomio Gramsci-Togliatti. Gli antitaliani hanno dovuto marcare la propria indipendenza rendendosi alfieri del marxismo cosiddetto scientifico e antiumanista, che ha poi trovato nella tradizione francese il suo verbo. Da qui la loro profonda empatia per la contestazione sessantottina è stata naturale. E’ proprio in questa fase che si è avuto il più importante cambio di generazione nella staffetta antitaliana.
I nuovi giovani antitaliani hanno fatto rapidamente il passo dalla rivolta studentesca ai gruppi della nuova sinistra; quindi, giunti alla trentina, come nella migliore tradizione delle famiglie rispettabili, hanno messo la testa a posto e li troviamo schierati in blocco a fianco del craxismo. Ma la loro piena ascesa al potere si ha con tangentopoli, quando i grandi giornali (di cui sono ormai diventati editorialisti di spicco, o vicedirettori, o addirittura direttori) mettono alla sbarra gran parte dei ceti politici tradizionali e diventano un centro di direzione politica di primaria importanza.
Questa è la storia camaleontica degli antitaliani. Si tratta, come si vede, di intellettuali molto particolari: si sono tenuti ben lontani dalle scienze sperimentali e dalle grandi ricerche erudite. La loro vocazione è quella della polemica, del giornalismo, delle intuizioni. Sono iscritti al partito dei geniali fin dalla più tenera età, e disprezzano nel partito intellettuale avversario, quello dei pedanti, soprattutto l’ingenuità, una qualità dello spirito per cui nutrono fin da bambini il massimo distacco. Sono quindi per vocazione giornalisti e intellettuali di complemento alla politica.
I cattolici hanno per lo più tenuto alla larga questo personale intellettuale, dal momento che potevano contare sulle proprie agenzie di riproduzione delle competenze. Diverso è il discorso per i comunisti e i socialisti che, avendo origine tra i ceti marginali, hanno sempre dovuto prendere a prestito gli intellettuali da altre tradizioni. Il rapporto degli antitaliani con la sinistra è stato però assai complesso: soprattutto il Pci ha consegnato le patenti di antifascismo con grande accortezza, non senza premunirsi, prima attraverso la struttura clandestina e poi nei mesi passati al ministero della Giustizia, di tutte le informazioni pertinenti sulle precedenti collaborazioni, commistioni, suppliche, fiancheggiamenti, confidenze con il regime fascista e le sue strutture repressive. Il fenomeno si è ripetuto negli anni settanta, quando la struttura territoriale del Pci è venuta a conoscenza di tutto ciò che c’era da conoscere circa i peccati di gioventù degli antitaliani e la simpatia che alcuni di loro hanno avuto per il terrorismo. Questo è uno dei motivi, ovviamente non l’unico, per cui il rapporto con i comunisti è sempre stato difficile, con punzecchiature, reciproche allusioni e qualche colpo tirato sotto il tappeto. Per tutta la prima fase della storia repubblicana il Partito comunista italiano ha rappresentato per gli antitaliani un cane da guardia arcigno e poco generoso.
Ovviamente tale rapporto è mutato radicalmente con la fine del Pci e la lunga alleanza che si è avuta durante tutti gli anni novanta tra questo gruppo di polemisti e la sinistra di origine comunista. Oggi però lo scenario sembra cambiare di nuovo: la crisi economica incombe e si fa strada la consapevolezza che nessuna nazione industriale moderna può essere diretta senza un sistema di partiti politici. Si è aperta quindi una fase di riaggregazione dei soggetti, in cui la tradizione nata con il Pci, e successivamente evolutasi nel Pds e nei Ds, rappresenta una delle poche culture tradizionali in grado di contare su un sistema organizzato di quadri e militanti, oltre a non essere più oggetto di una convenzione di esclusione dagli incarichi di governo. Una posizione privilegiata quindi, che dà ai dirigenti dei Ds un peso politico ed elettorale maggiore del loro effettivo potere nel paese. Da qui nasce la nuova offensiva: la resa dei conti dei poteri economici dovuta alla crisi (la lunga versione italiana del caso Enron, che si sta prolungando dalle vicende Cirio e Parmalat, fino alle gesta di Fiorani) si consuma contemporaneamente alla registrazione dei pesi di Ds e Margherita in vista della formazione del partito riformista. Ma nel polverone che si è creato non manca un drappello di antitaliani che ha in mente un obiettivo diverso: liquidare politicamente il gruppo dirigente dei Ds e vendicare una storia lunga un secolo. In questo partito è infatti individuato il pericolo maggiore per tanti potentati economico-giornalistici che da più di un decennio sono diventati anche importanti poteri politici, e che hanno sguazzato nella stagione di governo del centrodestra. La formazione di un nuovo sistema di partiti significherebbe per loro tornare a essere semplicemente potentati economici e giornalistici. Ma molti, tra quanti hanno assaporato l’ebbrezza di gestire la politica dalle redazioni dei quotidiani, non si sono ancora messi il cuore in pace sull’inevitabile rinascita dei partiti: di qui il loro ritorno all’antico, alla filibusta antitaliana.