Se avessi dovuto fare un regalo di Natale all’arcivescovo di Como monsignor Maggiolini, avrei senz’altro scelto i tre volumi finora editi de Il Grande libro dei Peanuts, edizione filologica delle strisce di Charles M. Schulz meritoriamente pubblicata da Baldini Castoldi Dalai. Dopo il volume dedicato agli anni ’70 (edito nel novembre 2003) e quello sugli anni ’60 (dicembre 2004), quest’anno, con uscita come di consueto strategicamente collocata a ridosso delle festività, è stato il turno degli anni ’80.
A monsignor Maggiolini manderei, naturalmente, anche un biglietto di auguri, nel quale proverei a spiegare perché i Peanuts rappresentino un mondo e una compagnia umana che con il cristianesimo e il cattolicesimo hanno molto a che fare, ma che forse hanno poco a che fare con ciò che del cristianesimo e del cattolicesimo intende il destinatario del regalo. Che Charles M. Schulz fosse cristiano è cosa risaputa. Fu adepto e, per un certo periodo, attivista della Church of God, una comunità metodista facente parte del variegato e a volte pittoresco mondo del protestantesimo statunitense. Già il teologo ed esegeta schulziano Robert L. Short pubblicò, anni fa, una serie di fortunati libri (usciti in Italia con i titoli Il vangelo secondo Charlie Brown, La Bibbia secondo Linus,Le parabole secondo Snoopy, tutti editi da Piero Gribaudi Editore) che illustravano in maniera chiara quanto la poetica e i testi delle strip di Schulz dovessero alla fede religiosa del loro autore.
Di religione, tuttavia, nei Peanuts si parla pochissimo, lo stretto indispensabile per contestualizzare in modo elementare alcuni eventi che scandiscono il tempo eternamente ritornante dei piccoli protagonisti (la recita di Natale, ad esempio, incubo ricorrente del povero Linus) o per consentire ai “teologi” del gruppo (con sfumature diverse: Linus – il più tecnicamente preparato; Charlie Brown – incline a un pessimismo da Ecclesiaste; e Snoopy – perlopiù cantore di un Dio panico latore di spensierata felicità) di procedere con le loro riflessioni. Il resto, cioè la gran parte del dipanarsi delle vicende raccontate nelle strisce, è la vita con i suoi aspetti fondamentali, attraversata dai tentativi più disparati e sempre vani di raggiungere la salvezza: la ricerca affannosa di quell’unica, irraggiungibile vittoria a baseball che renderebbe finalmente Charlie Brown un bambino in pace con l’universo; l’attesa sempre frustrata del Grande Cocomero da parte di Linus e degli altri personaggi che, di volta in volta, il secondogenito dei Van Pelt riesce a coinvolgere con piglio da evangelizzatore; la scimmiottatura dell’introspezione terapeutica realizzata da Lucy con il baracchino dello “Psychiatric Help”; la sfrenata creazione di mondi paralleli e di ruoli eroici da parte di Snoopy; e ancora: il pianoforte e il culto di Beethoven per Schroeder; l’understatement sfigato, ma autoconsapevole di Piperita Patty; il divertente egotismo di Sally, che aspira con ogni sua stilla di energia e pensiero a un mondo di cui lei sia il centro; infine, ma tralasciandone molti altri, il correlativo oggettivo e il simbolo di tutta la strip: la coperta di Linus, vero e proprio totem postmoderno con una capacità evocativa così potente da diventare proverbiale.
Di fronte a questa idolatrica (e perciò comica) ricerca di salvezza, Schulz sa perfettamente che l’unico peccato imperdonabile (l’evangelica “bestemmia contro lo Spirito Santo”) è l’incapacità di riconoscersi peccatori. Pertanto, le idolatrie che percorrono le strisce dei Peanuts non sono mai assolute e definitive, ma prevedono, piuttosto, sempre un punto di ritorno. Sono, letteralmente, “giochi” che il subcreatore del piccolo mondo dei Peanuts lascia giocare alle proprie creature, seguendo il filo della “libertà” insita nei caratteri che lui stesso ha creato e lasciato sviluppare lungo i decenni. Sempre e comunque, ogni personaggio dei Peanuts ritorna, attraverso il “travaglio del negativo”, ad appartenere a quella compagnia, al destino che gli altri personaggi rappresentano. Non c’è salvezza, sembrerebbe suggerire Schulz, se non nell’appartenenza gli uni agli altri, nel segno di un affetto, di un’amicizia, di un amore che non possono essere distrutti nemmeno dalla più spietata cattiveria (quella palla da football sempre sottratta al piede del povero Charlie Brown, ad esempio). Il peccato, l’inadeguatezza, la fragilità che percorrono ogni dimensione dell’umano sono vinti, suggerisce Schulz, dalla comunione e da niente altro, giacché la comunione tra gli uomini (per tacer del cane, definito da Short addirittura “Hound of Heaven”, vero e proprio Alter Christus dell’intera saga) è il segno misterioso, ma tangibile, del divino nella storia. Poche volte la Chiesa, la comunità di coloro che sono destinati alla salvezza (cioè, l’umanità intera), è stata rappresentata con maggiore efficacia.
Per finire, insomma, proverei a spiegare a monsignor Maggiolini e ai cattolici che come lui (ultimamente, pare che ce ne siano tanti, in giro) continuano a porre discriminanti culturali per “potersi dire cristiani” (e quindi niente Babbo Natale né Harry Potter né “cultura gay”, in attesa di altre scomuniche), che potrebbero andare a lezioni di cattolicità dal protestante Schulz.