Nel ventennio di questa confusa Seconda Repubblica non si può certo dire che quello tra sinistra e intellettuali sia stato un rapporto semplice. Dal processo di Firenze organizzato dai professori a Massimo D’Alema fino all’urlo di Nanni Moretti in Piazza Navona, passando dai girotondi, per finire con le più recenti polemiche tra Renzi e i «professoroni», non si può dire che siano mancati i momenti di scontro. Una dialettica che ha finito per alimentare e far sedimentare in una parte del popolo della sinistra un’idea palingenetica della società civile di cui un gruppo ristretto di intellettuali sono divenuti portavoce di professione. L’agenda, le scelte, le parole d’ordine delle forze progressiste sono state condizionate non poco da questa vera e propria religione della società civile. Se dunque si vuole ricostruire la storia di questo ventennio guardandola con occhi di verità non si può non tenere conto di questo rapporto e delle sue conseguenze. Ma da qui a dire – come ha fatto Matteo Renzi – che in Italia le riforme non si sono fatte per colpa dei «professoroni » ce ne vuole. Quella del premier è una critica fuori luogo non tanto per ragioni di bon ton, ma perché basata su una premessa falsa. Non è vero, infatti, che il problema dell’Italia sia che non si sarebbero mai fatte le riforme. Ne sono state fatte invece parecchie, dal mercato del lavoro al federalismo, dalla scuola all’università (in questo campo, anzi, non c’è ministro che non abbia voluto legare il suo nome a una grande riforma). Il problema è che, nella maggior parte dei casi, si trattava di pessime riforme.
È impossibile considerare diversamente alcune scelte che la sinistra al governo e la destra di Berlusconi hanno fatto nell’ultimo ventennio, ancor più guardando alla fotografia dell’Italia di oggi. A prescindere da ogni legittima valutazione politica, è proprio questa immagine a denunciare il fallimento: le molte riforme del mercato del lavoro che avrebbero dovuto produrre buona occupazione e hanno invece aumentato la precarietà; le frettolose revisioni costituzionali che avrebbero dovuto rendere più efficienti le istituzioni e che le hanno rese ancor più macchinose; le riorganizzazioni della pubblica amministrazione che invece di semplificare hanno destrutturato; le privatizzazioni che avevano promesso ai cittadini servizi più efficienti e invece li hanno solo resi meno convenienti.
Quello di Renzi contro i professoroni che avrebbero impedito le riforme è un argomento sbagliato, ed è un vero peccato. Perché di critiche agli intellettuali di sinistra – comprendendo nella categoria tutte quelle personalità che hanno avuto la capacità di produrre senso comune nel popolo democratico – se ne potrebbero fare molte. Perché se è vero che la crisi della sinistra in questi anni è stata una crisi di egemonia, la colpa non può essere scaricata solo sulla politica. Certo, i dirigenti della sinistra avrebbero potuto evitare di convincersi che riformismo significasse dire da sinistra cose di destra. E nessuno li ha obbligati a smembrare partiti e sindacati, e con essi l’idea stessa di una democrazia dei corpi intermedi. Avrebbero senz’altro dovuto accorgersi prima che le loro scelte stavano producendo una società più ingiusta. Però se la sinistra politica ha finito per essere travolta dalle conseguenze della propria subalternità culturale, forse anche quegli intellettuali qualche domanda dovrebbero porsela. Perché una crisi di egemonia è cosa di fronte alla quale non possono né far spallucce né alzare il ditino. Proviamo a guardarla dal punto in cui siamo oggi, in un paese in cui questione democratica e questione sociale si incrociano pericolosamente: per evitare che tutto si avviti in una spirale distruttiva occorre intervenire sull’una e sull’altra, e farlo rapidamente. La bozza di riforma istituzionale proposta dal governo nasce da questa urgenza. È davvero poco meno di un attentato alla Costituzione, come sembrano considerarla molti di quegli intellettuali?
Per carità, a quel testo si possono fare molte critiche, soprattutto per la mancanza di contrappesi che il combinato disposto monocameralismo-maggioritario richiederebbe. Ma il percorso di revisione costituzionale è talmente lungo e articolato che realisticamente consentirà di apportare le correzioni necessarie e superare gli aspetti meno convincenti del testo. Certo, Renzi mostra una certa frenesia, che può preoccupare chi legittimamente ritiene si debba pesare bene ogni ritocco alla Carta.
Però è davvero curioso che questa critica giunga da chi quell’urgenza ha contribuito a crearla. È la necessità di correggere alcune disfunzioni che richiede un intervento normativo, ma è la crisi di legittimità delle istituzioni che obbliga a farlo con urgenza. E a essere onesti bisogna riconoscere che la sfiducia non è figlia solo della cattiva politica. O davvero si immaginava che passare un ventennio a delegittimare i partiti, inneggiando alle virtù catartiche della società civile, non avrebbe prodotto alcun effetto? O che alimentare la religione del maggioritario, riducendo il tema del radicamento sociale al mito delle primarie, non avrebbe progressivamente spostato la barra del paese verso un presidenzialismo di fatto con forti venature populiste?
A ben vedere in questione non è il superamento del bicameralismo, ma l’impianto iper maggioritario della legge elettorale voluta dal presidente del Consiglio. Un impianto in piena continuità con quanto molti di quelli che oggi si indignano hanno sostenuto fino a ieri (con l’eccezione, va detto, di Stefano Rodotà, che ha spesso rivendicato la bontà di sistemi a base proporzionale).
De te fabula narratur, verrebbe dunque da rispondere a ciascuno di questi professionisti della società civile, che oggi si indignano con Renzi perché tenta una risposta a un problema che è anche il frutto della loro predicazione. Ma se guardiamo alla vicenda economica e sociale dell’Italia, le responsabilità dei nostri maître à penser sono ancora più evidenti.
Il ventennio che abbiamo alle spalle ha prodotto un gigantesco spostamento di ricchezza dal basso verso l’alto della piramide sociale e un intollerabile aumento delle diseguaglianze. Con l’inevitabile conseguenza che la distribuzione del potere è diventata sempre più oligarchica. Eppure negli anni in cui tutto questo avveniva – anche per responsabilità della sinistra – abbiamo avuto da parte dei principali intellettuali grida d’indignazione, girotondi, manifestazioni convocate su qualunque argomento meno che questo: la sinistra politica è stata crocifissa mille volte per milioni di sciocchezze, mai per le sue vere responsabilità.
Possibile che nessuno di quei professori così sensibili ai valori progressisti si sia accorto di come si stesse formando una schiera sempre più ampia di nuovi esclusi? Ce ne erano sempre di più anche intorno a loro, nelle università, magari anche tra i loro collaboratori più stretti, destinati dal precariato che contraddistingue ormai i lavori intellettuali a una condizione quasi servile.
Possibile che nessun santone televisivo dal cachet milionario si sia reso conto che per raccontare la sofferenza del paese non c’era bisogno di uscire dallo studio e andare a cercare fabbriche in crisi, ma che sarebbe stato sufficiente guardare oltre la telecamera e incontrare lo sguardo di chi la maneggiava per poche centinaia di euro al mese e un contratto evanescente come la durata di una breve stagione televisiva? Possibile che i tanti che giustamente incalzavano la sinistra politica sul conflitto d’interessi non si siano mai interrogati sui tanti analoghi conflitti di interessi degli editori i cui giornali pubblicavano i loro editoriali?
Ecco, se l’Italia è quello che è, forse una quota di responsabilità ce l’ha anche chi ancora oggi il dramma sociale si rifiuta di vederlo. Quando pochi anni fa osammo mettere in discussione il dogma dell’austerità, le critiche più dure vennero proprio da alcuni di quegli intellettuali.
Non c’è dubbio che le responsabilità maggiori della drammatica situazione del paese le abbia la politica. Che però – con le buone e con le cattive – i conti col proprio passato ha cominciato a saldarli. E una riflessione sui propri errori la sta sviluppando. È anche per questo che a sinistra c’è ormai un gruppo dirigente fortunatamente non omogeneo nelle idee, ma radicalmente rinnovato. Possibile che tra quegli intellettuali che oggi firmano appelli e ancora una volta si indignano, non ci sia nessuno che avverta la necessità di una simile riflessione autocritica? Nessuno che si interroghi su quanto gli atteggiamenti e gli argomenti di questi anni – al pari della cattiva politica – abbiano finito per aprire le porte al populismo? Nessuno che si renda conto che a ben vedere molti intellettuali di sinistra erano già grillini molto prima di grillo?
Perché qui sta il punto: di fronte all’incapacità della politica di costruire una visione autonoma si è preferito costruire una secca alternativa fra un «noi» e un «voi» che ha finito per divenire uno dei tratti distintivi del ventennio, uno dei tanti fattori di disgregazione della società. Il susseguirsi sempre più stanco di narcisistiche grida di indignazione in nulla ha contribuito a innovare sul terreno del pensiero né alcunché ha prodotto di concreto, se non qualche ospitata televisiva in più per l’indignato di turno.
Così oggi, di fronte a una crisi che è prima di tutta crisi di categorie, di modelli di pensiero, la sinistra si trova impreparata. E per incapacità di pensare il nuovo rischia di perpetuare il vecchio. Anche perché la sostanziale incomunicabilità tra intellettuali e politica di questi anni non ha prodotto solo il rifugiarsi dei primi nella comoda arte dell’invettiva contro i tempi che corrono (o nell’ancor più comoda posizione del tecnico che alla politica si “presta” senza mai sporcarsi), ma anche la progressiva ritirata della politica dal campo della riflessione, verso un pragmatismo senza principi e senza idee. Ed è invece solo nella terra di confine tra queste due speculari ritirate, nel terreno difficile e irregolare del dibattito politico-culturale, che ostinatamente è necessario tornare a gettare il seme di un impegno che guardi al di là delle prossime primarie, delle prossime elezioni e delle prossime nomine, riattivando i canali di una discussione aperta e non pregiudiziale tra politica e cultura. Attraverso iniziative pubbliche, articoli, libri, dibattiti. E anche, perché no, riviste.