Mediorientalia. Amare Sharon

Assistendo all’agonia di Sharon – perlomeno del primo ministro non più in carica, se non dell’uomo – e alla partecipazione con cui viene seguita sia in Israele sia nelle cancellerie di tutto il mondo, ci si pone questa domanda: come è avvenuto che Ariel Sharon – l’uomo che l’ex primo ministro Menachem Begin non voleva nominare ministro della difesa perché temeva potesse “circondare l’ufficio del primo ministro con i carri armati”, l’uomo che dopo la debâcle del Libano nel 1982 era diventato una figura odiata in patria e scansata come un paria a livello internazionale – improvvisamente sia diventato il primo ministro più popolare e potente della storia d’Israele dopo David Ben Gurion?
In effetti sembrerebbe una trasformazione assai forte. Tanto forte da avere anche scompaginato le normali affinità politiche: perché quello che era uno dei leader della destra più odiato dalla sinistra, oggi la sinistra – israeliana ma anche mondiale – sta imparando ad amarlo. Ma lungi da essere la mutazione di un uomo nell’ultima parte della sua vita, da odiato e ingombrante personaggio in eroe nazionale, in realtà si tratta dell’ultima pagina, sicuramente la più bella, di un lungo racconto: quello dell’intreccio inestricabile tra l’uomo Sharon e Israele. Una identificazione transitiva che affonda le sue radici naturalmente in dati umani e biografici. In dati umani, perché Sharon di Israele sembrava una perfetta metafora, apparentemente indistruttibile e dai nervi d’acciaio, con una forza fisica e una sua umanità anche gaudente e popolare – celebri le sue scorpacciate di montone – che diveniva spesso forza politica. Una forza compensata – come d’altronde per Israele – da una nascosta nevrosi, perché era ipocondriaco così come Israele è affetto da una esistenziale insicurezza. In dati biografici, perché Ariel Sharon nasce nel 1928 proprio nella Palestina del mandato britannico, per cui è un “sabra” (“fico d’india” in ebraico) parola con cui in Israele vengono definiti gli ebrei nati nel paese. E soprattutto perché di Israele è stato uno dei più validi soldati, a cominciare dalla sua partecipazione all’Haganah, l’esercito ebraico clandestino che combatté la guerra d’indipendenza del 1948, per continuare quando con i gradi di maggiore fu comandante dell’unità segreta 101, una piccola unità delle forze speciali la cui attività era coperta da segreto militare, perché doveva infiltrare le linee nemiche e lì condurre azioni di sabotaggio. Sharon salì quasi tutti i gradi della gerarchia militare, e partecipò a tutte le vicende militari: dalla Guerra dei Sei Giorni del giugno 1967, per finire con la guerra dello Yom Kippur del 1973. Per sorte e per il suo pragmatismo- era tutt’altro che un ideologo – l’uomo e lo Stato hanno sempre coinciso: portando a Sharon impopolarità nei momenti brutti e gloria in quelli belli. Tra i primi, basti menzionare l’azione di rappresaglia che come comandante dell’unità 101 condusse – per ordine di Ben Gurion – nella notte tra il 14 e il 15 ottobre 1953 contro il villaggio giordano di Qibya per le continue infiltrazioni in Israele da quel confine, azione che condusse alla morte di 69 civili inermi, suscitando un vespaio e facendogli attraversare un periodo di disgrazia; e naturalmente la sciagurata guerra in Libano, con la sua destituzione da ministro della Difesa – per opera di una commissione dello Stato – per la responsabilità nell’uccisione di quasi 2mila palestinesi inermi dei campi profughi di Sabra e Chatila. Tra i momenti gloriosi, la sua condotta nella guerra dello Yom Kippur, dove fu tra i pochi ad aver visto giusto – celebre la sua sconfessione della concezione rigida di difesa della linea Bar-Ilan in favore di una più flessibile, precoce segno distintivo del suo pragmatismo politico – e ad aver mantenuto i nervi saldi in un momento nel quale Israele sembrava essere sul punto di perdere la sua prima guerra. In quel momento la sua popolarità era alta quanto oggi, tanto che il canto “Arik, Melech Israel” (“Arik, re d’Israele”) era diventato un motivo comune nelle strade. E, ovviamente, l’ultimo Sharon, quello del ritiro da Gaza, dove si è impegnato in una battaglia politica interna tanto popolare nel largo pubblico quanto avversata dalla destra con tutti i mezzi, compreso un accorto uso scandalistico dei giornali – si potrebbe dire “all’italiana”, visti gli impressionanti parallelismi con gli attacchi a Fassino e D’Alema – attraverso sapienti fughe di notizie sulle inchieste nelle quali non è ancora ufficialmente indagato: tanto che un parlamentare ebbe a dichiarare recentemente che “la profondità del ritiro da Gaza equivale a quella delle investigazioni a cui è sottoposto”.
Sia nei momenti opachi sia nei momenti gloriosi Sharon è sempre stato il simbolo dei processi politici israeliani. Per questo per la sinistra italiana è necessario imparare ad amare Sharon: perché significa imparare ad amare Israele, con le sue inaccettabili durezze e con le sue straordinarie risorse, intellettuali ed umane, per opporsi alle prime e valorizzare le seconde. Un compito imprescindibile per una sinistra che voglia capire il mondo del dopo guerra fredda, e di conseguenza contare ed incidere. Sharon era Israele perché era il pragmatico per eccellenza, e solo un pragmatico può essere preso a simbolo da un paese che non ha una Costituzione perché non sa e non può definire che cosa sia un israeliano, se un cittadino dello stato o un ebreo. Ma assai spesso, come nel suo caso, pragmatismo non è sinonimo di cinismo bensì di efficacia, e dunque di idealismo concreto e non parolaio. Sharon infatti lascia in un momento in cui il suo pragmatismo coincide al massimo grado con il bene di Israele: egli per primo aveva capito come l’11 settembre 2001 aveva offerto ad Israele una temporanea nuova centralità da spendere subito sul tavolo da gioco, prima che la conclusione della guerra al terrorismo, finita la centralità della guerra fredda, relegasse Israele ai margini, condannandolo ad una lenta agonia. Per questo oggi fuori dall’ospedale Hadassah ci sono lunghe file e occhi lucidi. Se sarà un padre della patria a questo punto non dipende più da lui. Non è riuscito a completare il compito per il quale lo sarebbe diventato: dare uno stato ai palestinesi senza spaccare il paese. Il boccino adesso è in mano ai suoi eredi politici. Israele – e non solo – si prepara a vivere momenti di grande incertezza e opacità del futuro. E dunque è opportuno che questo omaggio ragionato, aperto con una domanda, con un’altra domanda si chiuda: i suoi eredi politici sapranno essergli pari e completarne l’opera? >