L’ editoriale di Giorgio Ferrari su Avvenire del 4 Gennaio merita una risposta. Il giornale della Chiesa italiana sostiene che la telefonata fra Piero Fassino e Giovanni Consorte “rivela senza mediazioni come il segretario del maggior partito di opposizione abbia necessità, per sentirsi protetto, di poter disporre di una banca”. Quindi si domanda come sia possibile che oggi “non ci si senta a proprio agio nel nido della politica senza il senso di sicurezza che deriva dall’avere una banca alle proprie spalle”. “Non nascondiamoci dietro un dito” prosegue l’organo della Cei “in questo secondo tempo della Repubblica ogni attore politico finisce per avere (o cercarsi) un banchiere di riferimento”.
Da quella conversazione telefonica deriverebbero la fine della diversità comunista per la quale i militanti del Pci si consideravano “sacerdoti di un’etica laica inaccessibile agli altri” e “lo sgomento di una base disperatamente desiderosa di continuare a credere”.
“Alla sconfitta morale dell’homo novus si somma la strutturale debolezza della politica italiana” continua Ferrari e conclude con un periodo di grande effetto: “sono ora i figli di tutti ad attendere una svolta. In nome della politica vera, quella che sa di vita e non di soldi”. Sorprende che l’organo dei vescovi italiani utilizzi una frase infelice (“siamo padroni di una banca?”), che pure ha la provenienza “malandrina di una intercettazione telefonica” – come riconosce il giornalista – per ascrivere Piero Fassino e i Democratici di sinistra alla categoria di coloro che hanno bisogno di servire un “banchiere di riferimento”.
L’Avvenire non prende neanche in considerazione le motivazioni politiche -più volte esplicitate seppur con poco coraggio – del sostegno che i Ds hanno offerto alla sfida lanciata da Unipol. Il sostegno a un progetto finanziario che voleva offrire uno sbocco alla spinta fisiologica a crescere di un movimento cooperativo che, nel suo insieme, rappresenta ormai il 7 per cento del Pil, oltre un milione di addetti e presidia comparti rilevantissimi del sistema produttivo del paese (dall’agroalimentare alle costruzioni, dai servizi alla persona alle assicurazioni, dalla meccanica alla grande distribuzione). Una galassia di migliaia di imprese (molte di matrice e origine cattolica) in cui il legame solidaristico tra i soci consente di mettere in comune le risorse e reinvestire integralmente i profitti nella missione imprenditoriale. Una formula che ha fatto delle coop, nell’ultimo quindicennio, l’unico settore dell’economia italiana – oltre alle grandi imprese pubbliche e alle banche -che si è sviluppato facendo impresa.
Non riecheggiano in questa vicenda questioni che hanno fatta tanta parte della storia politica del cattolicesimo italiano e vicende che hanno contribuito a rendere grande il primo tempo della Repubblica? Dalle banche popolari alle mutue, dal solidarismo sussidiario alla cooperazione cattolica legata alle comunità locali, fino alla lotta della Dc, negli anni ’50 e ’60, per imprimere un indirizzo nazionale e produttivo al governo dell’economia italiana? Rispetto a questioni così rilevanti, ci si aspetta giudizi meno asciutti e convenzionali. Anche perché, oltre ai risvolti penali e ai pettegolezzi, c’è una visione storico-politica all’origine della battaglia azzardata con cui Antonio Fazio si è giocato la Banca d’Italia. Se non è l’Avvenire a raccontarne agli italiani i presupposti e la sconfitta dovremo rassegnarci, per i prossimi cent’anni, alla storiografia della Procura di Milano!
Tuttavia dall’editoriale trapela una lettura amara sulla “seconda repubblica” che contiene senz’altro un nucleo di verità. Non c’è dubbio che, dopo il sequestro Moro, la Repubblica ha conosciuto un secondo tempo caratterizzato dall’aggressione ai partiti, dal loro progressivo indebolimento, dall’ assoggettamento della politica a diverse consorterie di interessi finanziari che, con un uso intensivo dei mass media e di sponda con apparati istituzionali sempre più autoreferenziali, hanno saputo conformare il senso comune del paese ai loro interessi. Un evento che ha contribuito non poco a indirizzare le trasformazioni istituzionali ed economiche dell’Italia dopo l’89.
Ristrette e potenti oligarchie hanno saputo intercettare la rivoluzione neoconservatrice degli anni ottanta e, sull’onda di due diverse interpretazioni prevalenti (fondamentalmente una individualista, l’altra “politicamente corretta”, entrambe antipolitiche) sono riusciti a sradicare partiti e culture corpose dal tessuto nazionale: la Dc e il Pci. La trasformazione del paese non è stata lineare né è tutta da buttare – si sono liberate e rivelate energie nuove legate all’appassionante sfida per la costruzione europea – tuttavia ha risentito fortemente dell’influenza di un liberismo da paese periferico. Il declino italiano accelera, con l’indebolimento dell’industria, il mito del “piccolo è bello”, l’accumulazione di un immenso debito pubblico, la finanziarizzazione e la concentrazione della ricchezza, l’enorme sviluppo dell’economia illegale, lo scadimento delle classi dirigenti e dell’Università. A questo si accompagnano la perdita di valore del lavoro, dello studio, la dipendenza delle nuove generazioni dalla ricchezza finanziaria e immobiliare dei genitori.
E’ in questo contesto che quella mutazione antropologica della gioventù – già intuita da Pasolini – ha visto negli scorsi decenni un pieno dispiegamento: l’Italia raggiunge le vette statistiche per bassa natalità, invecchiamento della popolazione, depressione precoce e consumo di droghe. Ma c’è in più lo smarrimento culturale, l’impossibilità di quell’apprendimento critico che solo l’applicazione a se stessi della disciplina connaturata a una forte motivazione, solo la concentrazione su una sfida o il richiamo di una vocazione, il desiderio di un progetto di vita possono dare. Senza voler imporre a nessuno una visione materialistica, tuttavia, fra il declino dell’Italia e la preoccupazione che i “figli di tutti” possano essere vinti dal disincanto c’è un nesso. E una politica che sappia di vita, non deve – certo – sapere di soldi, ma non può neanche ignorare la realtà storica del proprio paese.