L’articolo di Matteo Orfini sull’ultimo numero di Left Wing mi spinge a una risposta. Una risposta in difesa della categoria professori-intellettuali, che il politico Orfini chiama in correità: se i politici di sinistra hanno sbagliato inseguendo improbabili terze vie, se hanno mostrato subalternità al liberismo, se non si sono accorti della crescita delle diseguaglianze, intellettuali e professori dov’erano? Ebbene, caro Orfini, erano dove sono sempre stati, ovvero ben distribuiti tra conservatori e progressisti, tra sostenitori dell’onda montante del pensiero unico e suoi accesi critici. Perché accanto ai molti cultori del pensiero unico, i critici c’erano. E non erano una sparuta minoranza difficile da individuare all’occhio attento di chi avesse voluto scovarli: al contrario, erano autorevolmente rappresentati nell’accademia. Basterebbe scorrere convegni, pubblicazioni, seminari degli ultimi venti anni per dimostrarlo.
Perché allora sono sfuggiti alla vista di Orfini (e non solo alla sua per la verità, ché anzi Orfini ha il merito di essersi posto da tempo il problema)? Non so se sia corretto parlare di un vero e proprio ostracismo, ma senz’altro i critici erano sottorappresentati tra gli editorialisti del Corriere della sera e di Repubblica e non solo, tra i partecipanti ai talk show, tra gli invitati a riunioni di partito e trasmissioni. Potrei citare diversi aneddoti, alcuni anche personali, su quanto fosse difficile, fino a pochi anni fa, far arrivare a un quotidiano un articolo che osasse mettere in discussione quelli che allora erano dogmi indiscussi. In alcuni casi, chi provava a organizzare qualche evento pubblico non in linea veniva sbeffeggiato, anche da giornali e politici “di sinistra”.
È il sistema dell’informazione, lo sappiamo. E non possiamo ridurre a poche battute o affrontare sbrigativamente la questione di cosa determini il successo di pubblico e critica di una visione del mondo, del perché prima no e ora sì, dell’interazione tra media, politica e produzione culturale. Ma un punto vale la pena di toccarlo. Perché se in fondo è normale che di volta in volta vi siano visioni egemoni che conquistano l’opinione pubblica, quello che dovrebbe preoccuparci è che si sia rotto quel canale di comunicazione tra i partiti della sinistra, specie della sinistra di governo, e il suo ideale retroterra intellettuale. Che cioè anche i dirigenti dei partiti di sinistra alla fine si siano accontentati di leggere gli editoriali del Corriere della sera e di Repubblica e si siano convinti che quegli editoriali rappresentavano l’opinione unanime degli studiosi.
Quindi, caro Orfini, se da un lato mi sento di respingere il tuo j’accuse a nome di una parte non marginale dell’accademia (almeno di quella che conosco meglio, ovvero gli economisti), dall’altro rilancio chiedendo che ci si interroghi tutti quanti sulle ragioni che hanno fatto sì che i critici del pensiero dominante risultassero così invisibili, quando non addirittura invisi, alla sinistra di governo. Ragioni che hanno a che vedere anche, a mio avviso, con il tema annoso della forma partito e dei modi della partecipazione politica. A questo riguardo, faccio fatica a considerare una soluzione accettabile sia quella quella dell’intellettuale organico propria di forme partitiche tradizionali, sia quella della delega del rapporto con gli intellettuali a think tank esterni, teorizzata da chi auspica il partito leggero e praticata da ben prima della nascita dal Partito democratico. Se infatti la prima rischia di soffocare le voci critiche e dissonanti, la seconda comporta l’abdicazione totale rispetto all’ambizione di un’elaborazione autonoma e consegna la soluzione dei problemi ai centri del potere economico e mediatico.
Insomma, parliamone. Non vorrei che, tra dieci o vent’anni, noi economisti critici dell’attuale linea di politica economica venissimo accusati di aver taciuto di fronte ai drammi dell’austerità e della flessibilizzazione del lavoro solo perché nessuno nel frattempo ha saputo o voluto ascoltare.