Finite le elezioni, festeggiate le vittorie, analizzate le sconfitte e celebrato come si doveva quel clamoroso 40 per cento, al governo Renzi e al Partito democratico rimane una promessa da mantenere: estendere la manovra degli 80 euro anche a pensionati, partite iva e incapienti. Per ragioni di equità, per dimostrare che quella misura non era tattica pre-elettorale ma una scelta strategica e perché ogni promessa è debito, e di debiti accumulati ne abbiamo già abbastanza.
E anche per un’altra ragione, più strettamente politica, che ha a che vedere con il modo in cui Renzi ha deciso di giocare la sua partita all’indomani della sua schiacciante vittoria congressuale. Molti, primi tra tutti i suoi sostenitori, fino all’ultimo hanno pensato che mai e poi mai Renzi avrebbe cercato di arrivare a Palazzo Chigi senza passare da nuove elezioni, fuorviati dalle ripetute dichiarazioni in tal senso dello stesso Renzi. Ovviamente nessuno era così ingenuo da scartare l’ipotesi che la tensione tra il segretario del principale partito della maggioranza appena incoronato dalle primarie e l’allora capo del governo, che al congresso non si era schierato ma certo non poteva essere considerato un renziano, avrebbe portato alla caduta di Enrico Letta. Tutti, però, immaginavano che le cose sarebbero andate come erano andate nel 2007, quando si era presentata una situazione pressoché identica. Quando cioè a essere incoronato dalle primarie era stato Walter Veltroni, mentre a capo di un governo fondato su una larga coalizione era Romano Prodi.
Allora vi fu persino chi teorizzò esplicitamente, con l’immagine bellicosa del «doppio colpo in canna», che dalla caduta del governo Prodi e dalle successive elezioni il nuovo leader del Pd avrebbe avuto comunque da guadagnare: se vinceva, perché vinceva; ma anche se perdeva, perché presentandosi da solo, grazie al meccanismo del “voto utile”, avrebbe preso comunque una percentuale così alta per un singolo partito da fare del Pd il dominus del centrosinistra per un lungo futuro (e del suo leader il dominus di tutto il partito per un futuro forse anche più lungo). In pratica, si abbandonava in partenza la sfida per il governo, considerata già persa, illudendosi di potere capitalizzare la sconfitta del centrosinistra trasformandola in una vittoria del Pd. Una sorta di premio della critica, come disse una vignetta, che non a caso per anni gli è stato generosamente attribuito da tutti coloro che da sempre sognano una sinistra che faccia bellissime campagne elettorali perse in partenza e lasci governare gli altri.
Renzi, però, ha fatto esattamente l’opposto. Proprio lui che tanto ha puntato sull’immagine e sulla comunicazione, si è dimostrato consapevole di quanto tutto questo non possa bastare. La sua campagna elettorale è stata l’azione di governo, a cominciare dalla manovra degli 80 euro. Il successo elettorale del Pd è venuto di qui. E proprio per questo ‒ perché la politica non è fatta di chiacchiere ‒ non ha avuto bisogno di nessuna costrizione maggioritaria, nessun meccanismo che incentivasse il “voto utile”, niente di niente: il Pd ha preso il 40 per cento con una legge elettorale proporzionale, in un voto in cui non si decideva la sorte di nessun governo e in cui di conseguenza gli elettori avrebbero avuto tutte le ragioni per considerarsi “in libera uscita”. Se non ne hanno approfittato è perché, evidentemente, si trovavano bene lì dov’erano, a casa loro.
La novità è che lì, nel Partito democratico, si è sentito a casa un blocco sociale potenzialmente maggioritario. Un esito che indubbiamente deve molto alla personalità del leader, al modo in cui in questi anni ha saputo costruire il suo personaggio, alla comunicazione e a tutto questo genere di cose, che tanto appassionano gli addetti ai lavori (non foss’altro perché, in un paese che sforna più scienziati della comunicazione che scienziati di qualsiasi altra cosa, gli addetti ai lavori fanno la maggioranza quasi da soli). Ma è evidente che tutto questo, da solo, non sarebbe bastato, come non bastò a Veltroni alle elezioni del 2008. E come non basterà a Renzi la prossima volta, se all’azione di governo non si sarà accompagnata l’azione di un partito capace di dare finalmente rappresentanza a quella larga parte della società italiana che dalla politica, e anche dalla sinistra, in questi anni è stata o si è sentita espulsa. Non basteranno i gazebo, né i giubbotti di Fonzie, né le battute spiritose. Del resto, Pier Luigi Bersani aveva vinto più primarie di chiunque altro. E da Maria De Filippi c’era andato pure Piero Fassino, quando era ancora segretario dei Ds. Non sono certo queste le novità.
La novità è che attraverso l’azione di governo, grazie a una precisa scelta di redistribuzione che ha detto agli italiani da che parte stava il Pd meglio di mille interviste, la sinistra ha ristabilito i contatti con i ceti popolari e con tanti lavoratori che guadagnano meno di 1500 euro al mese, per la prima volta da molti, molti anni. Se davvero Renzi vuole «mettere la residenza» in quel clamoroso 40 per cento raccolto alle europee, il primo passo è dare a loro la residenza nel Partito democratico.