La Cgil è bloccata ormai da troppi anni. Ha continuato a vivere schiacciata sul breve termine, in crescente afasia politica, senza fare le scelte strategiche essenziali a conservarsi in buona salute come organismo di rappresentanza e senza neppure avviare una vera discussione. Al contrario, alla crisi di rappresentatività ha teso a rispondere con l’arroccamento e l’adozione di meccanismi artificiali di legittimazione, quali la continua ricerca del riconoscimento reciproco tra i soggetti indeboliti della rappresentanza sociale e la pretesa di costruire, per via pattizia, un monopolio contrattuale destinato a crollare nelle aule dei tribunali.
È fallita anche la scommessa del suo recente congresso, di ricercare il cambiamento aprendo una vera e propria fase costituente con il coinvolgimento delle iscritte e degli iscritti. Così come il tentativo di fare vivere il pluralismo delle posizioni all’interno di una impostazione il più possibile unitaria del dibattito congressuale. Anzi, tutto si è risolto nell’esatto contrario e oggi, per la prima volta, in Cgil vige un sistema rigidamente maggioritario. Ove per maggioritario si intende l’appropriazione, aprioristica, pregiudiziale ed esclusiva, da parte della maggioranza congressuale, dell’organismo esecutivo confederale, da cui viene bandita, per decreto non discutibile, ogni espressione del pluralismo dell’organizzazione. Tale pluralismo si trasforma immediatamente e direttamente in “opposizione”, non per scelta della minoranza e neppure dopo l’avvenuta verifica all’interno dell’organismo direttivo dell’assoluta impraticabilità di una governance unitaria, ma semplicemente perché in Cgil esso non ha più cittadinanza, una novità che non può considerarsi un passo verso la modernità: infatti il combinato disposto di tale concezione maggioritaria e dell’assenza di ogni strumento di verifica e di contendibilità democratiche provoca un mutamento dello stesso dna della Cgil in senso autoritario.
Il passaggio a un maggioritario di fatto, quale quello che si sta imponendo, implicherebbe una discussione preventiva di qualche spessore, a partire dal tema dell’applicazione alla democrazia sindacale di principi propri della democrazia politica. I sistemi proporzionale e maggioritario privilegiano ciascuno un aspetto: il primo, la precisa indicazione del peso nelle urne dei singoli contendenti, il secondo l’esigenza della governabilità. Entrambi, in quanto democratici, si basano sull’esercizio universale dell’elettorato attivo e quindi passano per la verifica elettorale: i partiti politici, periodicamente, si sottopongono al giudizio dell’intero corpo elettorale che può decidere di cambiare i rapporti di forza tra di loro, confermando o modificando gli assetti di governo e di opposizione. La scelta, anche nel nostro paese, di un sistema elettorale maggioritario, si è ulteriormente irrobustita con l’avvento, almeno in alcune delle principali forze politiche, della prassi delle primarie per la scelta del candidato a segretario e per l’automatica designazione del vincitore anche a candidato primo ministro.
L’adozione di tali metodi, di pari passo con l’eclissi della forma partito tradizionale, ha teso ad accrescere la contendibilità delle posizioni di comando all’interno delle forze politiche, aumentando nel contempo la visibilità e la personalizzazione della competizione. Questo può piacere o non piacere, ma certo esplicita la necessità di un passaggio attraverso una forte legittimazione popolare di ogni candidatura alla leadership partitica e alla premiership. Ma questo nel caso della rappresentanza sindacale non avviene: l’elettorato “universale” esiste infatti solo per l’elezione delle rappresentanze sindacali aziendali e, anche in questo caso, è sottoposto a correzioni di tipo organizzativo. Occorre a tale proposito rilevare che la Costituzione repubblicana, scritta all’indomani della fine del regime fascista che aveva vietato il diritto alla libera organizzazione sindacale, tende a privilegiare il valore democratico dell’organizzazione. Tuttavia, di fatto, in assenza di una legge applicativa dell’art.39 della Costituzione, la vicenda sindacale italiana si è sviluppata all’insegna dell’autonomia collettiva e all’ombra di una legislazione di sostegno (di cui lo Statuto dei lavoratori rappresenta l’esempio più significativo) che non è intervenuta mai direttamente sulle questioni contrattuali e quelle organizzative interne ai sindacati.
Per molti anni, il sistema si è retto su un mix di democrazia delegata, centrata sulle tre grandi centrali sindacali, e di democrazia diretta, in virtù della quale ai lavoratori è sempre spettato il diritto di validare con il loro voto le piattaforme rivendicative e gli accordi collettivi realizzati in loro rappresentanza. Nel corso del tempo il sistema non è mutato, ma è mutata, e profondamente, la condizione in cui esso opera: il lavoro è cambiato, i rapporti di forza anche, le tipologie di lavoro si sono moltiplicate, la concorrenza da costi ha giocato al ribasso sui trattamenti contrattuali, salariali e normativi. Sono diverse anche le condizioni soggettive dei lavoratori, il loro modo di pensare, il loro rapporto con il lavoro e con i diritti in esso incorporati, la loro idea di come difenderli o la loro rassegnazione all’esistente. Progressivamente si è allentato il loro rapporto con il sindacato, precludendo a molti, soprattutto fra i più giovani, la possibilità di entrare in contatto con la dimensione della rappresentanza collettiva, l’unica in grado di educare a coltivare i temi della solidarietà e della comunità di interessi. A differenza di altri momenti di cambiamento epocale, questa volta, il sindacato italiano non è stato in grado di farvi fronte.
Per tornare alla domanda iniziale, ci sono differenze tra democrazia politica e democrazia sindacale? E, se si, come si estrinsecano? In passato, attraverso le correnti partitiche e, dopo la loro fine a partire dagli anni novanta, attraverso il rigoroso rispetto dei filoni politici e culturali che hanno sempre caratterizzato l’identità della Cgil, il pluralismo è stato costantemente riconosciuto all’interno di esecutivi in cui si privilegiava la rappresentanza di tutti e si adottava il metodo della mediazione nella paziente ricerca di posizioni condivise. Tale attitudine ha tenuto insieme un’organizzazione plurale anche nei momenti di più alta tensione politica. Nel passaggio al modello maggioritario, specie nella sua forma estrema di governo/opposizione, si sono perse queste caratteristiche senza che venissero sostituite da forme nuove di rispetto e di tutela del pluralismo. Ora non è più chiaro a quali principi faccia riferimento il sistema di governance in vigore e dunque diventa ineludibile la necessità di prendere decisioni in proposito.
La scelta è tra l’evoluzione verso forme di governance nuove o la conferma e l’ancoraggio alle antiche modalità di funzionamento. Tertium non datur! Non è infatti più accettabile che la Cgil resti, come ora, nella terra di nessuno delle riforme non realizzate: novecentesca, nelle forme apparenti della sua democrazia di organizzazione, ma in realtà caratterizzata da fortissime connotazioni personalistiche e autoritarie, in cui nei fatti la collegialità è cancellata, le segreterie sono uno staff dei segretari generali, il rapporto tra potere direttivo e potere esecutivo è fortemente compromesso a favore di quest’ultimo e soprattutto gli assetti del potere interno sono inscalfibili perché le iscritte e gli iscritti tendono a non esercitare alcun protagonismo attivo. Ma per sopravvivere e proiettarsi nel futuro, occorre cambiare, aprirsi all’innovazione. La dialettica e il confronto sono elementi positivi e non ostacoli. La confederalità non è un criterio gerarchico ma un valore che fa parte del metabolismo di tutte le strutture. E se la scelta è, come io sostengo convintamente, quella di puntare al cambiamento piuttosto che a un difficile/quasi impossibile ritorno al passato, occorre innanzi tutto ridisegnare le regole di governance, formali e sostanziali.
Prioritario è stabilire che una democrazia di organizzazione che privilegia la capacità decisionale sulla mediazione ha bisogno di alcune caratteristiche basilari. La prima è la necessità di una legittimazione “universale” per chi assume le posizioni di vertice. Ciò significa che non basta il voto di un comitato direttivo a scegliere una leadership, ma occorre una più ampia assunzione di responsabilità di fronte alla base rappresentata da parte di chi intende concorrere alla leadership stessa: occorre cioè la contendibilità della carica e la legittimazione attraverso il coinvolgimento reale degli iscritti. La seconda è la necessità di regole, vincoli, contrappesi e controlli per rendere contendibile la maggioranza, per evitare che il governo della maggioranza si trasformi nella sua dittatura e per impedire che una leadership perda il suo naturale carattere di direzione politica e si trasformi in termini rigidamente gerarchici, secondo i quali le decisioni non hanno bisogno di essere motivate.
La terza caratteristica è la definizione di un mix corretto tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta: non è più rinviabile l’individuazione, per via legislativa, delle forme della certificazione della rappresentatività delle singole organizzazioni e delle modalità dell’esercizio del voto vincolante dei lavoratori sulle piattaforme e gli accordi che li riguardano. La quarta è che la vita interna dell’organizzazione non può più rimanere in un cono d’ombra da cui sia assente una vera accountability. A questo proposito, esistono alcuni temi da affrontare preliminarmente, per i quali non dovrebbero esistere particolari problemi ostativi: il primo è la trasparenza, anche tramite le tecnologie informatiche, e la rendicontazione dell’attività amministrativa. Il secondo è l’adozione di un codice etico che andrebbe sottoscritto da tutti coloro che operano all’interno del sistema confederale.
Per concludere, penso che se vuole difendere i suoi valori storici, occorre che il sindacato confederale si rinnovi profondamente, senza snaturare, anzi rafforzandola, la funzione contrattuale originaria. Questo, in funzione della costruzione di un modello sociale in cui le persone, con la propria intelligenza, contribuiscano alla vita dell’azienda presso cui prestano attività e alla vita della collettività di cui fanno parte, realizzandosi attraverso il lavoro che fanno: un lavoro ben regolamentato, giusto, sano, un “decent work” che solo la contrattazione collettiva – pur con tutte le profonde riforme di cui ha bisogno per mettersi in linea coi tempi – può garantire.
L’imperativo del cambiamento è categorico per la Cgil: per reagire alla caduta di interesse nei suoi confronti da parte di molti lavoratori, per rompere la diffusa percezione che la accomuna alla casta, per dare risposte nuove al lavoro che è cambiato, per esercitare un protagonismo rinnovato, per ridare l’orgoglio del ruolo ai moltissimi operatori sindacali che cercano ogni giorno di fare il loro dovere, con grande spirito di abnegazione.
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Nicoletta Rocchi è sindacalista della Cgil