L’ Iran e i suoi tremila anni di storia non sono mai stati facilmente comprensibili per il resto del mondo. I greci e i romani lo hanno a lungo combattuto, raramente hanno tentato di dialogarci. Per questo non stupisce l’odierna incomprensione sul vero significato degli ultimi atteggiamenti verso il mondo esterno adottati dal nuovo presidente Ahmadinejad, peraltro anche lui un oggetto misterioso. L’incomprensione è antica e culturalmente ben radicata. E il fatto che sul tavolo ci sia soprattutto la questione nucleare certo non aiuta l’occidente e gli Usa a mantenere la mente fredda e distaccata, come sarebbe necessario per una lucida analisi dei punti di forza e di debolezza dell’Iran di oggi, e soprattutto per capire che cosa ci sia dietro i recenti proclami contro Israele.
L’Iran di oggi vive una fase espansiva della sua potenza, e non una fase di crisi. E la politica registra questo mutamento, eleggendo quasi un anno fa a sorpresa il neopresidente iraniano contro Rafsanjani, il candidato “pragmatico” della Guida Suprema Alì Khamenei. Ahmadinejad è del resto espressione della prima fase della rivoluzione khomeinista, quella dell’esportazione della rivoluzione islamica: un’altra fase espansiva, prima dei ripiegamenti degli anni ottanta. Egli infatti è eletto dagli strati popolari, cioè l’originaria base sociale su cui fece leva l’Ayatollah Khomeini per prendere il potere nelle sue sole mani subito dopo la caduta dello Shah, instaurando la repubblica islamica. Quella fase espansiva fu poi fermata dalla guerra all’Iraq, che attaccò l’Iran per conto dell’occidente e dei paesi arabi circostanti, Kuwait e Arabia Saudita in testa. E nella fornace di quella guerra Khomeini fu costretto a sacrificare anche una generazione di quegli strati popolari, con ciò facendo perdere di slancio e di forza alla rivoluzione e subendo un suo ripiegamento. Del resto la guerra, si sa, arricchisce i commercianti e gli industriali: ed è proprio quello che successe in Iran, dove il potere passò a una nuova aristocrazia – composta di mullah, intermediatori, professionisti e grandi commercianti – e ai suoi rappresentanti politici, i conservatori “pragmatici” alla Rafsanjani. Ci fu quindi la parentesi riformista di Khatami, eletto nel 1997: per consolidarsi però avrebbe avuto bisogno di un multilateralismo inclusivo che l’occidente non seppe fornire, anche perché distratto dalla crisi iugoslava e dall’impegno sempre più frustrante nel conflitto israelo-palestinese.
Così arriviamo a oggi: ma la crisi dei riformisti non ha significato – contrariamente alle attese – il ritorno dei conservatori pragmatici, bensì quello dei khomeinisti delle origini, dei poveri tra i più poveri, dell’ideologia dei puri e duri. Quelli sacrificati in otto anni di guerra all’Iraq, che di nuovo chiedono di contare. Se infatti si analizzano i discorsi di Ahmadinejad si vede come per lui la guerra sia tutt’altro che una memoria lontana, e che al contrario quell’esperienza è alla base della sua proposta politica. Che mira ad acquisire la deterrenza necessaria – soprattutto nucleare – a far sì che, come spesso dice il presidente Ahmadinejad, essa non si ripeta “mai più”. Avendo fallito i riformisti, sono stati infatti i conservatori che si rifanno alla purezza della rivoluzione a eleggere il presidente: perché l’Iran è entrato in una fase diversa, di rafforzamento politico ed economico sul piano internazionale – anche per l’alto prezzo del petrolio – dove il popolo ai margini intravede spazi per poter contare di nuovo. Una fase, dunque, che non poteva essere interpretata da quei mullah arricchitisi durante gli anni ’90 dietro lo schermo della ritirata strategica di un paese attaccato da tutte le parti, che sono stati politicamente rappresentati dai conservatori pragmatici.
Del resto, che si tratti di una fase diversa è vero per tante ragioni. Primo, la guerra in Iraq – paradossalmente – ha dato una posizione del tutto nuova agli sciiti, esaltandone il ruolo politico, in particolare in quei paesi arabi dove essi sono maggioranza – Iraq innanzitutto, ma anche Bahrein – o dove sono una importante minoranza, come Libano, Arabia Saudita e paesi del Golfo in generale. Tanto da far scrivere amaramente all’autorevole giornale arabo Al-Hayat che “per un colpo di fortuna l’Iran è diventato il primo beneficiario della politica Usa e degli arabi in medio oriente”. Secondo, l’affermarsi dell’Asia sulla scena mondiale sta avendo come conseguenza la crescita del suo protagonismo politico: non solo si sta formando un’alleanza sempre più stretta tra Iran, Russia, India e Cina, ma la spaventosa crescita della Cina e il suo spasmodico bisogno di petrolio stanno rendendo l’Iran un paese sempre più intoccabile a livello internazionale. Basti pensare che la compagnia petrolifera statale cinese Sinopec ha siglato nell’ottobre del 2004 con l’Iran un accordo venticinquennale per l’importazione di gas del valore di 100 miliardi di dollari, e che la Cina è così diventata il primo mercato per gli idrocarburi iraniani. In barba all’Iran-Libya Sanctions Act statunitense, e con in più la vendita all’Iran dei missili cinesi terra-terra a lunga gittata e la costruzione di fabbriche cinesi per la costruzione di automobili e televisioni. Dopo lo storico accordo, peraltro, il ministro degli esteri cinese Li Zhaoxing ha annunciato che la Cina non sosterrà nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu sanzioni contro il programma nucleare iraniano. Nel frattempo, l’Iran sta discutendo con l’India la costruzione di un gasdotto diretto tra i due paesi, cioè stringendo forti legami con la seconda potenza asiatica emergente, acerrimo nemico del sunnita Pakistan, con cui l’Iran si è scontrato per motivi religiosi e in Afghanistan. Perché in Medio Oriente il nemico del mio nemico è mio amico. Mentre a loro volta India e Cina hanno appena chiuso uno storico accordo per fare solo offerte congiunte sul mercato del petrolio.
Questa crescita di potenza dell’Iran si riflette quindi nella spinta nazionalistica verso il nucleare, su cui c’è una forte unità nazionale e nazionalistica: in un recente sondaggio fatto a dicembre ben il 70 per cento degli studenti – la parte meno nazionalista dell’Iran – si dichiarava a favore, mentre il 50 per cento diceva che bisognava ignorare le pressioni internazionali volte ad arrestare il programma nucleare anche se ciò significasse la guerra. Insomma, di tutto si può parlare meno che di un paese sulla difensiva. Più che altro è un paese incerto su come gestire questa nuova fase espansiva, come si vede anche dalle divisioni interne al blocco conservatore. Mentre infatti sul piano politico-ideologico la proposta di Ahmadinejad di ritorno alle origini si è rivelata vincente, i conservatori pragmatici di Rafsanjani mantengono salda la presa sul potere economico. Ahmadinejad riesce così a sostituire quasi tutti gli ambasciatori in carica e a mettere un suo seguace come Ali Larjani a capo del Consiglio di sicurezza nazionale, ma deve proporre ben quattro candidati a ministro del Petrolio prima di vedersene approvato uno dal parlamento, a grande maggioranza conservatrice. Adesso lo scontro con Rafsanjani si concentra sul nucleare, dove la partita è ancora aperta. Per questo i proclami bellicosi contro Israele, peraltro accompagnati da simili proclami verso gli Usa a cui nessuno ha fatto caso. E a cui subito Rafsanjani ha risposto dicendo che “noi non abbiamo problemi con gli ebrei”. Come andrà a finire non si sa ancora, e molto dipende dalle scelte della Guida Suprema Alì Khamenei – che da sedici anni ora favorisce gli uni ora gli altri, badando a che nessuno stravinca – e dal tipo di strategia che sceglierà la comunità internazionale, e non solo su questa importante questione. Ma se chi sia il vincitore è ancora incerto, alcuni sconfitti già ci sono: gli Usa sul piano internazionale e i riformisti sul piano interno. ■