Da quando è diventato segretario del Pd e (soprattutto) presidente del Consiglio, Matteo Renzi ha cambiato molte delle sue posizioni. Se tralasciamo le dichiarazioni e stiamo alle scelte effettivamente compiute, intendendo tanto le scelte con un concreto contenuto economico-sociale quanto quelle di carattere politico-simbolico, non si può non vedere come tutte corrispondano a uno stesso disegno, a una stessa direzione di marcia, decisamente diversa (non diciamo opposta, ma sicuramente diversa) da quella con cui si è affermato nel 2012 nella sfida con Pier Luigi Bersani. Una sfida persa con un distacco di oltre venti punti, come spesso dimenticano i suoi ammiratori più accesi, ma probabilmente non ha dimenticato lui. Parliamo del Renzi che si schierava con Marchionne senza se e senza ma, con Monti senza però o tuttavia, persino con la Merkel nel rifiuto di qualsiasi critica all’austerità e al rigore tedesco. Inutile aggiungere quale fosse più in generale la sua collocazione nell’eterno dibattito sull’identità della sinistra, i suoi simboli e le sue bandiere.
Come spiegare dunque l’improvvisa decisione di mettersi a capo del fronte anti-austerità in Europa, puntare tutte le risorse disponibili su un aumento salariale di 80 euro netti al mese varato per decreto da Palazzo Chigi, aderire a pieno titolo al Partito del socialismo europeo, ribattezzare “feste dell’Unità” le feste dell’Unità, e tutte le altre scelte che in questi mesi hanno fatto arrabbiare tanti dei suoi primi sostenitori?
Personalmente, la spiegazione che mi sono dato è che dopo avere raccolto il sostegno di tutti gli avversari (non solo interni) del corso bersaniano quando c’era da scalzare Bersani, una volta conquistata effettivamente la guida del Pd, Renzi ha domandato molto laicamente a se stesso se aveva fatto tutto questo per passare alle cronache come “il Monti giovane”, come il nuovo idolo degli editoriali di Angelo Panebianco e Pierluigi Battista, come l’ultimo modello di riformismo da indicare ai lettori del Corriere della sera e del Sole 24 Ore, o se tutto quello che aveva fatto fin lì non lo aveva fatto piuttosto per diventare, puramente e semplicemente, un leader della sinistra. Per finire nei libri di storia accanto a Tony Blair e Gerhard Schröder. Per parlare alle folle della festa dell’Unità avendo sul palco, accanto a sé, i leader socialisti di mezza Europa. Non per parlare a Cernobbio dopo Corrado Passera.
Finora, a cominciare dalla decisione di salire a Palazzo Chigi senza passare dal voto, Matteo Renzi non ha esitato, quando lo ha ritenuto necessario, a fare anche l’esatto contrario di quello che aveva detto fino a quel momento. Ma è evidente che così non potrebbe continuare a lungo. Dunque deve fare una scelta: adeguare le parole ai fatti, o viceversa, adeguare i fatti, cioè le scelte di governo, alle sue vecchie parole d’ordine.
Molto – direi quasi tutto – dipenderà da cosa deciderà di fare adesso, nella discussione sul cosidetto Jobs Act. Nel merito, la questione è più semplice di quanto l’eterno ripetersi di un dibattito assurdamente sempre uguale a se stesso farebbe pensare. Il punto non è se questa volta abbia ragione Maurizio Landini, che dice le stesse cose che diceva nel 2012, quando a cambiare l’articolo 18 fu il governo Monti, con l’appoggio del Pd, o se abbia ragione Pietro Ichino, che dice le stesse cose di sempre (qui, in ogni caso, oseremmo sperare che non abbia ragione nessuno dei due). La domanda decisiva, andando all’osso, è se il governo accetterà o meno la strada su cui molti in Europa lo spingono con forza, che al di là delle chiacchiere consiste puramente e semplicemente nel cercare di recuperare competitività abbassando il costo del lavoro, cioè indebolendo le garanzie e dunque la forza contrattuale dei lavoratori.
A parte ogni altra considerazione, sarebbe implicita in questa scelta una resa, quasi un atto di autoumiliazione, che stonerebbe non poco con il piglio e la retorica del presidente Consiglio: significherebbe rassegnarsi ad abbandonare anche la sola idea di competere sulla qualità e sulle fasce alte del mercato, dove conducono il gioco i paesi più forti, a cominciare dalla Germania, per accettare la serie B delle produzioni a basso costo. In altre parole, avendo perso la sovranità monetaria e dunque non potendo più svalutare la moneta, svaluteremmo i salari dei lavoratori italiani. Ma così facendo – e anche questo è un punto che un presidente del Consiglio così attento all’immagine e alla comunicazione dovrebbe cogliere al volo – svaluteremmo l’Italia.
Siamo proprio sicuri che alla fine dei conti il bilancio – o se preferite il trade-off – sarebbe positivo? Personalmente, penso che sarebbe terribilmente negativo per i lavoratori e per l’Italia nel suo complesso. E anche per Renzi.