Non mettiamo in discussione le valutazioni che hanno spinto il presidente della Repubblica a rinviare alle camere la legge Pecorella. Valutazioni certamente fondate, in particolare sul rischio di una deformazione del ruolo della Cassazione. Restano però, tra i molti argomenti impiegati nel dibattito che quella decisione ha preceduto, diverse affermazioni che appaiono espressione di un modo di concepire la giustizia e lo stato di diritto che in questi anni, soprattutto a sinistra, ha prodotto guasti rilevanti.
Tralasciando dunque gli aspetti strettamente giuridici e costituzionali, vogliamo innanzi tutto difendere il principio che è alla base della legge Pecorella: una volta che un imputato sia stato prosciolto dalle accuse, dopo avere affrontato indagini e dibattimento (e magari anche qualche mesetto di carcerazione preventiva), non è ragionevole né giusto che egli debba essere sottoposto a un secondo processo. Mentre è ragionevole e giusto che un cittadino condannato in primo grado possa ricorrere in appello. La parità tra accusa e difesa dovrebbe essere garantita nel processo, cioè nel libero confronto tra le parti, non certo da una sorta di improprio bilanciamento reciproco tra i vari gradi di giudizio. La parità tra accusa e difesa non significa parità tra pm e imputato. Nel caso in cui non sia possibile accertare la verità al di là di ogni ragionevole dubbio, in Italia come in qualsiasi paese civile, la legge prevede che l’imputato sia assolto, non che il giudice tiri una moneta e nemmeno che il processo vada avanti a oltranza, come sembrerebbe auspicato dai tanti che nel corso di questo dibattito si sono chiesti perché mai si dovrebbero limitare i poteri della pubblica accusa. Ma allora, si potrebbe replicare loro, perché prevedere soltanto un giudizio di appello, oltre al giudizio di legittimità della Cassazione? Perché non prevedere dieci, cento, mille processi d’appello, così da essere ben sicuri che nessun colpevole sfugga alle strette maglie della giustizia? Eppure la storia e la cronaca sono piene di vicende processuali protrattesi per decenni, in cui il succedersi delle diverse sentenze non ha certo portato maggiore chiarezza, ma al contrario ha lasciato una scia di dubbi e contestazioni, legittimate da tanti diversi e spesso contraddittori pronunciamenti, annodando per sempre matasse inestricabili di accuse fondate e infondate, ricostruzioni attendibili e campate in aria, autorizzando di fatto ogni speculazione giornalistica, politica e storiografica. E lasciando frustrate le speranze di giustizia dei parenti delle vittime, certo non ricompensate dalla retorica di una solidarietà spesso strumentale e pericolosa.
Qui è infatti la seconda e più radicale delle obiezioni che suscita il dibattito a margine della decisione di Ciampi, quando fa riferimento alla disparità che la legge Pecorella produrrebbe non solo tra accusa e difesa, ma anche tra imputato e parte civile. Questo è il punto più delicato, che tocca un nervo sensibile e una questione culturale, che riguarda la sinistra ma prima ancora i giornali e la televisione. Se infatti la parità tra accusa e difesa non può essere fraintesa in parità tra pm e imputato, tantomeno può divenire parità tra imputato e parte civile. Occorre avere il coraggio di dirlo nettamente, a rischio di passare per aguzzini senza cuore, perché troppe volte una cattiva retorica sui “parenti delle vittime che chiedono giustizia” ha trasformato il processo – nel dibattito pubblico e giornalistico, quindi inevitabilmente anche nella stessa aula di giustizia – in un’arena in cui al pm sta il compito di dimostrare la colpevolezza dell’accusato nonostante quest’ultimo, non si sa bene perché, abbia il diritto di tentare come meglio può di sfuggire alla giusta condanna. I diritti dell’imputato sono considerati in pratica gli avanzi di una torta cui debba prima essere sottratta la parte spettante all’accusa e prima ancora – quando c’è – alla parte civile. La presenza nel processo delle vittime – abbiano le sembianze di una spietata multinazionale o quelle di una famiglia straziata dal dolore – non può significare una limitazione dei diritti dell’imputato. Eppure spesso i processi vengono raccontati su giornali e televisioni proprio dal punto di vista dei parenti delle vittime, i quali per ragioni psicologicamente e umanamente più che comprensibili sono sempre e invariabilmente convinti della colpevolezza dell’imputato. Ecco quindi che quei processi divengono a lieto fine se l’imputato viene condannato al massimo della pena e motivo di scandalo se invece viene riconosciuto innocente. Anche così, almeno nei casi che hanno suscitato pubblico interesse, si è messo in discussione l’operato della giustizia. Non è anche questa una forma di inaccettabile delegittimazione della magistratura? Eppure, specialmente a sinistra, una simile lettura delle vicende processuali ha avuto fino a oggi largo corso. Speriamo che da alcune timide aperture che pure sulla legge Pecorella si sono intraviste, certo rese più ardue dalle note predilezioni della maggioranza per la produzione di leggi ad personam e spesso anche a casaccio, si faccia largo e coraggio una più generale riflessione nella sinistra – questa sì, anche autocritica! – sul rapporto tra giustizia, politica e mezzi di comunicazione.