Proprio mentre il governo italiano è impegnato in una difficile trattativa con la Commissione europea per l’applicazione dei margini di flessibilità previsti dal Patto di Stabilità, una parte del Partito democratico sembra improvvisamente far propria l’idea – finora patrimonio esclusivo della Lega, del Movimento 5 Stelle e di alcuni partiti di estrema destra – di abbandonare la moneta unica. Basterebbero le analisi di molti economisti sugli effetti devastanti di una scelta di questo tipo per archiviare la questione come una boutade autunnale. Ma sono proprio i pilastri portanti del ragionamento del fronte anti-euro del Partito democratico che risultano essere piuttosto deboli. I tre argomenti utilizzati – ovvero che il perpetrarsi della crisi sarebbe colpa dell’assetto istituzionale dell’unione monetaria, che l’euro è una delle cause del declino italiano e, infine, che l’euro sarebbe incompatibile con le politiche di sinistra – non sembrano trovare riscontri nei dati disponibili. Ma andiamo per ordine.
Che l’architettura istituzionale attorno alla moneta unica soffra di importanti deficienze è cosa nota e abbastanza incontestabile. Che però tale architettura stia contribuendo al prolungamento della crisi è alquanto opinabile. Nel dibattito pubblico degli ultimi anni si è fatta largo l’idea che l’esplosione degli spread avvenuta nel corso del biennio 2011-12 fosse legata a una sorta di crisi da bilancia dei pagamenti che, non potendo scaricarsi sui tassi di cambio, avrebbe condotto all’aspettativa di una uscita disordinata dei paesi dall’area euro. Lo spread – secondo questa impostazione – misurava la probabilità che un paese affetto da un importante e sistematico disavanzo commerciale fosse costretto ad abbandonare la moneta unica. Questa ipotesi si scontra innanzi tutto con una incoerenza: i problemi di bilancia dei pagamenti sono emersi quasi subito dopo l’introduzione dell’euro (e per alcuni paesi erano addirittura pre-esistenti), ma l’andamento degli spread nel corso del periodo 1997-2010 non sembra aver avuto alcuna relazione con i saldi delle partite correnti. Come Daniel Gros e altri economisti hanno evidenziato, la relazione emerge, ma solo per un breve periodo di tempo, per poi tornare a scomparire nuovamente.
A questa evidenza si aggiungono alcune analisi, una condotta di recente dal Fondo monetario, che mostrano come solo una piccola parte dell’aumento degli spread sarebbe imputabile alla riallocazione di portafogli esteri, quindi al fatto che gli investitori esteri – impauriti dal fatto che i propri capitali in euro potessero venire ridenominati in lire/dracme/pesetas e fortemente svalutati – hanno scelto di spostare i loro capitali dai Piigs verso lidi più sicuri. Il grosso dell’aumento dello spread sembrerebbe invece dovuto alla riallocazione di portafogli dei residenti, quindi al fatto che i risparmiatori dei Piigs abbiano spostato i loro capitali all’estero o addirittura si siano dovuti liberare di titoli nazionali per far fronte al calo del proprio potere d’acquisto. Più che una crisi da bilancia dei pagamenti dovuta all’impossibilità di svalutare creata dall’euro, quella del 2011-12 sembra essere stata soprattutto una classica crisi da debito: i risparmiatori dei Piigs sono stati costretti a decumulare ricchezza. Questa interpretazione non solo toglie dal banco degli imputati l’architettura che regge la moneta unica, ma ha anche l’effetto di rafforzare due assi portanti delle argomentazioni portate avanti dai partiti di sinistra. Da un lato, darebbe ulteriore forza alle critiche alle politiche di austerità. Infatti queste ultime, lungi dall’interrompere il decumulo di ricchezza generato dallo scoppio della crisi, lo ha addirittura accelerato, spingendo il sistema ad avvitarsi su se stesso. Dall’altro lato, smonterebbe l’ossessiva attenzione alle politiche “strutturali” per incentivare la mitica “competitività” e favorire il riequilibrio interno. Se il problema non sono gli squilibri interni all’unione monetaria, anche la cura della deflazione interna non solo non avrebbe efficacia ma farebbe ulteriori danni.
Il perpetuarsi della crisi non è dovuto dunque all’assetto istituzionale su cui è stata costruita l’unione monetaria. Al contrario, il problema è stata la decisione scellerata dei paesi europei di interrompere la fase “espansiva” del biennio 2009-10 e pensare che fosse giunto il momento di tornare alla saggezza convenzionale. Le regole del Patto di Stabilità andavano applicate con tutti i margini di flessibilità e con tutte le deroghe previste, così come sta chiedendo il governo italiano in queste settimane. E’ stato – e continua a essere – soprattutto un errore di politica economica, non di design istituzionale. Il che naturalmente non vuol dire che un’unione monetaria più equilibrata non sia auspicabile.
Il secondo argomento usato dal fronte anti-euro del Partito democratico è che l’architettura istituzionale sbagliata che sorregge la moneta unica abbia finito per penalizzare in misura determinante il nostro paese e che quindi un’uscita dall’euro non potrà che migliorare la situazione. Anni fa il dipartimento economia e lavoro del Pd curò un volume in cui si evidenziò con dovizia di particolari come l’elemento chiave alla radice del declino italiano fosse l’andamento deludente della produttività totale dei fattori (Ptf). In quell’analisi era proprio la performance di questo indicatore che era in grado di spiegare il basso tasso di crescita del pil, l’andamento deludente del tasso di occupazione e il progressivo impoverimento del paese. Se davvero l’euro e l’unione monetaria fossero all’origine di questo problema dovremmo osservare quello che gli economisti chiamano “break strutturale” nei livelli e/o nel trend della produttività totale dei fattori dal 1997 in poi. Detto in termini più semplici, in corrispondenza dell’aggancio alla moneta unica, o nel periodo immediatamente successivo, la nostra produttività dovrebbe cambiare andamento o comunque modificare il proprio comportamento. Varie sono state le analisi condotte in tal senso con diverse tecniche di stima, ma nessuno è stato finora in grado di identificare un “break strutturale” nel periodo considerato. L’unica modifica sostanziale negli andamenti della Ptf è antecedente alla fissazione del tasso di cambio fisso e comunque – essendo comune a tutta Europa – sembra legata a un fenomeno di “great unlearning” che si è concretizzato attraverso la progressiva riduzione degli investimenti in Ict. A rafforzare ulteriormente questa analisi c’è il fatto che non siano registrati effetti statisticamente significativi di shock di domanda negativi sulla Ptf dovuti all’eccessivo apprezzamento del tasso di cambio reale. L’unico break strutturale statisticamente significativo in tal senso si verifica nel 2008, è comune a tutti i paesi dell’euro ed è chiaramente dovuto allo scoppio della crisi. L’ipotesi che l’euro sia alla radice del declino economico italiano sembra quindi poco robusta. Di conseguenza, la convinzione che un’uscita dall’euro sia in grado di determinare una inversione di tendenza è più un atto di fede che una valutazione supportata dai dati.
C’è infine un terzo elemento, che segue le due argomentazioni presentate sopra, ovvero l’idea secondo cui l’euro sarebbe incompatibile con le politiche di sinistra. Questa è una specificità del fronte anti-euro interno al Partito democratico e – se possibile – è ancora più debole delle due argomentazioni precedenti. Tutta la teoria economica ci ricorda che la “competitività” è un concetto totalmente privo di senso, malamente mutuato dal management aziendale. Vent’anni fa Paul Krugman scrisse un meraviglioso saggio dal titolo “Pop Internationalism” proprio per deridere l’economia internazionale à la carte che si era impossessata dell’amministrazione Clinton e che considerava una nazione alla stregua di una azienda. Quanto e cosa un paese esporta dipende dai suoi vantaggi comparati, non da quelli assoluti. Fatto salvo il caso delle piccole economie aperte, dove l’export può aumentare la scala di produzione, un paese esporta unicamente per garantirsi quel flusso di denaro necessario per poter importare quei prodotti che non può produrre all’interno e migliorare in tal modo il benessere interno. Tutto il resto è mercantilismo. Proprio questa banale constatazione spazza via dal campo tutta quella retorica inutile sul taglio dei costi di produzione e della spesa pubblica che dovrebbero essere funzionali ad aumentare la “competitività” di un paese e quindi il suo benessere. Il benessere di un paese non dipende dalla “competitività”, ma dalla sua produttività. E’ il livello di produttività medio che definisce il saggio di salario. Ed è sempre il livello di produttività che definisce il tasso di crescita dell’economia e – di conseguenza – anche la possibilità di finanziare sistemi di sicurezza sociale più o meno estesi. Se, come abbiamo ricordato sopra, l’euro non ha avuto effetti statisticamente significativi né sul trend né sui livelli della produttività italiana, non si capisce davvero come l’abbandono della moneta unica potrebbe garantire un miglioramento del benessere sociale e la possibilità di fare “politiche di sinistra”.
In conclusione, può senza dubbio essere utile avere nel cassetto un piano di emergenza nel caso il fronte conservatore – che sarebbe un grave errore far coincidere con il Ppe – decida di difendere lo status quo come una linea del Piave fino a costringerci all’uscita. Tuttavia un piano del genere è da trattare alla stregua del piano di evacuazione da Napoli in caso di eruzione del Vesuvio. Trasformare questo piano in deliberata azione politica è invece un grave errore economico e politico. Economicamente, la scelta di uscire dall’euro non migliorerà la situazione del nostro paese e non aprirà alcuno spazio a politiche di sinistra. Politicamente, significherebbe offrire il fianco alle operazioni nemmeno troppo nascoste di una parte delle classi dirigenti tedesche che stanno puntando alla creazione di un “euro dei forti”, ma non vogliono prendersi la responsabilità di distruggere l’Europa per la terza volta in un secolo. E sperano proprio nella prima mossa dei Piigs.