La sentenza che ha mandato assolti i boss della camorra, condannando invece il loro avvocato, Michele Santonastaso, per le minacce contro Roberto Saviano e Rosaria Capacchione – pronunciate nel dare lettura di un’istanza di remissione della Corte, nel processo Spartacus 2, sei anni fa – sembra appartenere a un mondo rovesciato. In un mondo con la testa in su e i piedi per terra, non si condannano gli avvocati dei camorristi, ma i camorristi. E però, la calma e la ponderazione necessarie per riflettere sulla sentenza (in attesa delle sue motivazioni), suggeriscono di scrivere un’altra volta questa proposizione di quasi ordinario buon senso: in un mondo normale, sono i camorristi a essere condannati, non i di loro avvocati. Le minacce provengono dai primi, non dai secondi.
A scanso di equivoci, diciamo con chiarezza che Roberto Saviano e Rosaria Capacchione hanno corso seri rischi personali, e non è per un loro capriccio che sono costretti a condurre una vita difficile, sotto scorta. La sentenza suona paradossale, ma non la si può usare in modo strumentale per svalutare la serietà della minaccia portata all’uno e all’altra. Qualunque cosa si pensi della faccenda sotto il profilo penale, resta che le storie e le inchieste di Saviano e Capacchione alla camorra hanno dato molto fastidio, e certamente continuano a darne entrambi, con la loro attività: giornalistica l’una, politica l’altra.
Ma la sentenza impone anche un’altra riflessione. Tutti coloro che ne scrivono, scandalizzandosi per l’assoluzione dei boss, fanno più o meno il ragionamento seguente. Francesco Bidognetti e Antonio Iovine sono camorristi, e di sicuro toglierebbero volentieri di mezzo tanto lo scrittore quanto la giornalista. Ma la sentenza li manda assolti, dunque la sentenza è sbagliata.
Ora, può darsi che la sentenza sbagliata lo sia davvero, ma di sicuro il ragionamento è lacunoso, e probabilmente anche sbagliato. E non perché siano sbagliate le premesse. Anzi: in termini non strettamente giuridici ma di certezza morale, così come in termini di conoscenza della storia criminale campana, si può persino arrivare a scrivere che i boss sono senz’altro colpevoli, e tuttavia concludere diversamente. Dire in conclusione che non la sentenza è sbagliata, ma il processo. Che ruota problematicamente intorno a un atto di intimidazione contenuto nella presentazione di un’istanza legittima, la quale spetta naturalmente a un avvocato di avanzare in un processo. Tradurre questo momento processuale in una minaccia reale non è un’impresa semplice, anche solo per il fatto che è inedita.
Se la Corte allora manda assolti i boss, può darsi che non stia scrivendo una cattiva sentenza o una brutta pagina nella storia giudiziaria di questo paese, ma che tragga qualche inevitabile conclusione da un processo male impostato. Il cui impianto accusatorio, così dimidiato dall’assoluzione dei boss, non è detto che regga nei successivi gradi di giudizio. Se così fosse, il problema non sarebbe il giudice che assolve, ma l’accusa che si infila sempre più spesso per strade assai difficili da seguire per un tribunale.
Purtroppo, nel clima che si crea intorno a un certo tipo di processi, suona scandaloso ciò che invece sa anche l’ultimo praticante legale di uno studio forense: che si possono sbagliare atti e strategie processuali, modalità di incriminazione e capi di imputazione. Ma in un clima di eccezionalismo giudiziario nel quale si finisce immancabilmente per cadere, vuoi per precipitazione, vuoi per una pur comprensibile ansia di risultati, vuoi infine (e soprattutto) per il clamore mediatico di talune vicende, queste distinzioni finiscono con l’apparire inutili sottigliezze, vuote cavillazioni, astruse sofisticherie. Sono invece, nel diritto, l’essenziale. E segnalano un’esigenza reale, che sempre più spesso, sotto la pressione dell’opinione pubblica, viene accantonata. L’esigenza, dico, di evitare forzature, e processi francamente anomali, in cui elementi tattici, legati alla condotta delle parti nel dibattimento, vengono imprudentemente penalizzati. Alla caccia del reo, più che del reato.
E poiché evidentemente il processo di Napoli alla libertà di parola – come lo ha chiamato Repubblica – non bastava, non ci siamo fatti mancare il processo alla scienza dell’Aquila, con l’intera Commissione Grandi Rischi condannata in primo grado. Lì però l’appello ha già fatto quello che potrebbe accadere in secondo grado anche a Napoli: ha assolto tutti. Ora, sarebbe sbrigativo commentare che il «non poteva non sapere» non funziona quasi mai, figuriamoci quando da prevedere sono i terremoti, ma in realtà non è nemmeno questo il punto: le imputazioni erano di diversa natura. Resta che però era diffusa grazie al clamore mediatico un’attesa di giustizia a senso unico, cioè nel senso esclusivo della condanna: quando la condanna non sopraggiunge, il contraccolpo in termini di delusione e frustrazione è inevitabile, in maniera del tutto indipendente dalla carte processuali.
È così, purtroppo: l’eccezionalismo giudiziario nasce a un parto con il sensazionalismo mediatico. Nasce con le gonfie mitologie dello sdegno, alla costruzione delle quali i commi e gli articoli del codice servono molto meno dei titoli di giornale. Ma, si sa, i titoli di giornale non li fa Saviano. E se a Roberto Saviano e a tutti noi non serve a nulla l’esito di un processo che manda assolti i boss, dubito che servano pure le ondate di sacrosanta indignazione che le assoluzioni sollevano: quando l’onda si ritira, si rischia soltanto di raccogliere i detriti di leggi e prassi piegate non a esigenze di giustizia, ma solo dal passaggio dell’onda. Facciamoli allora meglio, i processi, difendiamo Saviano e Capacchione, e calibriamo meglio i titoli dei giornali.