Rich è un bambino ricchissimo che possiede beni fuori dal comune: tra gli altri un’astronave d’oro, una barca a vela e un campo da baseball. Tuttavia i soldi non fanno la felicità e Rich si ritrova spesso a dover affrontare la solitudine. Un giorno però dovrà affrontare un uomo che cercherà di derubarlo della sua ricchezza…
Potrebbe sembrare una favolistica versione del duello televisivo tra Berlusconi e Rutelli. Ma non è così. È la trama di un film: Richie Rich – il più ricco del mondo (1994, con il bambino prodigio Macaulay Culkin). Era in programmazione sabato in prima serata su Italia1. Mediaset, dopo il successo di audience di venerdì, ha deciso di sostituire il film con la replica del duello di Matrix tra Berlusconi e Rutelli. Potremmo chiederci, in ottica di conflitto di interessi, perché Mediaset abbia deciso la replica e perché su Italia1. Ma lasciamo queste domande a future intepretazioni e rivolgiamo una sentita ode alla divinità televisiva che tutto può, con sottili coincidenze e inconsapevoli sostituzioni. Ma veniamo a noi. Chi ha vinto?
Ha vinto chi non è stato prigioniero del proprio personaggio. La televisione, lo sappiamo, costruisce, ragiona, vive solo al presente. Crea personaggi con la presunzione di poterli rendere universali ed eterni. Vicini e conosciuti da tutti, fin nei più intimi particolari. Sempre pronti, sempre attivi, sempre sorridenti. Una macchina che crea e raramente distrugge. Crea e lascia lì, all’erosione del tempo e delle immagini che passano. Poche personalità televisive, e non pensiamo alla politica, sono riuscite a cambiare se stesse, ad evolversi in qualcos’altro. I meccanismi di fidelizzazione richiedono identità visibili e facilmente riconoscibili e rendono ciascuno schiavo del proprio personaggio.
La sfida tra Berlusconi e Rutelli partiva già scritta. Strategie e controstrategie dei rispettivi staff dovevano tener conto degli immaginari chiusi (un insieme di pre- e post- concetti) che costituiscono l’identità mediatico-politica dei due leader (di tutti i leader, ma in particolare di coloro che hanno nella televisione il proprio spazio identitario). Una sfida che si offriva come pezzo di una storia lenta e prevedibile, come conferma Rutelli su Repubblica di venerdì. Il leader della Margherita era lo sfidante. Per ragioni non politiche, né sondaggistiche, ma prettamente televisive. Berlusconi è nato lì, la televisione “è casa sua, è il suo mondo” (lo stesso Rutelli lo sottolinea l’indomani da Fabio Fazio), è lì che è nato il suo successo umano e professionale, lì che ha creato il suo personaggio, lì che ha saputo entrare in sintonia con gli italiani e, così, diventare un leader politico, lì che ha vinto (lì che si scorgono segni di lento sgretolamento di immagine). Il pericolo maggiore, per l’ex-sindaco di Roma, era allora di fare troppo il “cicciobello”. Di essere troppo televisivo, troppo sorrisi e slogan, troppo “piacione” (come dice l’arbitro Mentana nei commenti dell’indomani, senza cogliere che Rutelli, anche difendendosi dai ripetuti complimenti di Berlusconi – “perché lui è bello!” – ha invece tenuto a bada la propria piacioneria).
Rutelli è arrivato in trasmissione con un’idea su come comportarsi. Una strategia di contrapposizione e differenziazione da Berlusconi, per non apparire, come forse ancora nel 2001, la “bella” copia televisiva del Cavaliere. Un leader del centrosinistra in tv con una strategia politico-comunicativa: va dato atto a Rutelli e al suo staff che è già un primato. Il leader della Margherita è riuscito, proprio nello scontro più importante della sua carriera, a liberarsi del bambolotto che ha troppo a lungo portato con sé, del sorriso perenne e piatto, del discorso accattivante in modo monocorde, delle frasi impalpabili. Era (tale sembrava, quindi tale era) più magro del solito. Più adulto, più serio, più responsabile. Ed era quello che serviva. Si è mostrato più sereno del premier. Capace di sorridere, limitando il sarcasmo e lasciando spazio ad un umanità un po’ incredula e un po’ preoccupata. E poi, scelta fondamentale (pretatticamente dissimulata nell’intervista a Repubblica): non demonizzare Berlusconi. Contrapporre e criticare, ma sempre (o quasi: stona in tal senso, nella strategia relazionale che ci pare di aver individuato, l’affondo sulle leggi ad personam, su cui Berlusconi ama difendersi e che il gioco delle parti del centrosinistra – se ci fosse – dovrebbe lasciare ad altri) fermandosi a tempo prima di permettere a Berlusconi di rifugiarsi nel vittimismo, una delle sue maschere preferite.
E così, invece, Berlusconi si è ritrovato, lui, con un ghigno saccente. Lui che è stato il genio della sintonia con la pancia del paese sembra malato di dalemite: si vanta nei confronti dell’avversario, verso cui non ha controstrategie efficaci, limitandosi a criticarne l’incoerenza (ma proprio lui dovrebbe sapere che l’incoerenza nel presente astorico della televisione semplicemente non esiste) e la vicinanza al Pci (ormai neanche più ex). Ma non basta. Arriva addirittura a criticare i “ragazzi” nel pubblico che applaudono Rutelli, con toni di superiore disprezzo (caduta clamorosa per chi ha dimostrato di conoscere e portare sacro rispetto per i meccanismi simulacrali della tv). Era sottotono Berlusconi. Ma per inquadrare perché, torniamo alla questione iniziale. Berlusconi è prigioniero del proprio personaggio. È così recente (ancora il presente continuo), così dentro l’immaginario non solo politico, così nato e cresciuto in tv che ormai è, definitivamente, l’icona di se stesso. I record di durata del suo governo non sono bastati a renderlo un governante (e Rutelli, abile, lo sottolinea). Resta un grande politico, la cui grandezza risiede negli spazi che ha saputo vivere: è un mito dei nostri tempi, una star mediatica. Ma è come Michael Jackson (o Macaulay Culkin), non come Madonna. Nato negli anni ’80, famoso nei ‘90 e poi schiavo di se stesso. Ogni volta che parla, che appare, che sorride, Berlusconi convoca un immediato confronto con quello che è stato, prigioniero della propria immagine e del proprio successo. Ed è indubbio che rispetto a dodici anni fa è annebbiato nelle sue capacità comunicative: tempi più lenti, discorsi più vaghi, balbettii ogni tanto. Rutelli commenta bonariamente il suo “impappinarsi”, all’avvio, cercando un inglesismo non necessario. “È normale in un dibattito” commenta l’ex sindaco (bene: umanizzare!). Ma invece per Berlusconi non è così. Non può permettersi di essere normale. Non può perdere la battaglia contro se stesso: si è costruito troppo perfetto per potersi modificare, troppo monolitico (come sempre in tv) per potersi adattare ai nuovi tempi e ai nuovi ruoli, troppo “istrione” (ancora il Mentana del giorno dopo) per essere partecipe delle difficoltà della gente, troppo infallibile per poter avere flessioni (ecco perché umanizzare.)
La sua sfida è davvero estrema: dimostrare (far ancora credere) di essere davvero infallibile. O soccombere a se stesso. In una serata che la differita di Italia1 ha mostrato lunga e lenta, ha quindi vinto Rutelli. Pur senza affondi memorabili (ma non ce n’era spazio. Non era ancora il tempo). Rutelli ha segnato la linea da seguire. Ancora da registrare qualche passaggio argomentativo, per rispondere più incisivamente, e qualche tono, continuando sulla strada dell’umanizzazione dell’avversario. Gli altri leader del centrosinistra sono avvisati. Se sbagliano ne porteranno le colpe. Chi riuscirà, poi, ad affiancare alla controstrategia la parte positiva di visione e di proposta (che Mentana ha annunciato per tutta la serata infine rinunciando), riuscirà ad essere, di fatto, per la gente, il leader politico e comunicativo di fianco al governante professor Prodi.