Nell’anno in cui andava in onda in Olanda, su un network privato, la prima edizione del programma Big Brother, giunto l’anno successivo in Italia, su Canale 5, e la scorsa settimana ritornato tra squilli di tromba con la sesta edizione e uno share del 36,8 per cento, si svolgeva presso il Museum of Modern Art di New York un’importante mostra, The Un-Private House, nella quale ventisei architetti di fama internazionale esponevano le loro idee circa i cambiamenti che investono gli spazi abitativi privati, in conseguenza dei nuovi stili di vita e delle trasformazioni dei nuclei familiari verificatisi nel corso degli ultimi anni.
Tra le idee dominanti, spiccava l’adozione del loftstyle living per le famiglie senza figli, che possono permettersi di vivere in grandi ambienti unici, i cui spazi restano divisi esclusivamente da partizioni mobili. Ora, è vero che al Grande Fratello ci sono stati il tugurio e la suite, e quest’anno l’area per i ricchi e quella per i poveri, ma la filosofia dell’abitazione mi pare rimanga quella del loft, o del grandangolo, di una prospettiva sullo spazio interno che consenta di abbracciare tutto in un unico sguardo.
Anche la profonda modificazione contemporanea della relazione pubblico/privato ha ispirato il lavoro degli architetti. Shigeru Ban ha portato alla mostra una progettazione del 1995: un’abitazione le cui pareti esterne, di stoffa e vetro trasparente, possono all’occorrenza mostrare all’esterno l’interno della casa e gli spostamenti dei suoi abitanti. La casa del Grande Fratello è stata insomma già costruita: è sufficiente che si inceppino le tendine. Nel saggio che introduceva la mostra, si citava una riflessione del columnist del New York Times, William Safire: “Non è ora di invertire la terribile tendenza a mettere a nudo la nazione, e riscoprire la privacy come un valore dell’America?”. Il Grande Fratello lascia pensare che quell’ora non sia giunta: né per l’America né per noi.
Infine, il valore del focolare domestico, del cantuccio, l’idea riposante e tranquillante che a casa ci riposi. Con la sua architettura critica, Rem Koolhaas, presente alla mostra, costruisce ambienti freddi, “la cui costitutiva mancanza di familiarità lancia una sfida ed è al tempo stesso liberante”: quale migliore descrizione del rapporto che i concorrenti del Grande Fratello hanno con la casa, in cui, privati del comfort domestico, affrontano una sfida per liberarsi delle loro ordinarie esistenze?
Dopo il successo del Grande Fratello, sono stati proposti altri reality-show: dalla Fattoria a MusicFarm all’Isola dei Famosi. Solo nel Grande Fratello si tratta però della casa. Che le telecamere entrino nella casa ha un significato più dirompente che non osservare i vip alle prese con la natura o in sala d’incisione. Quando, alle origini del linguaggio architettonico moderno, Adolf Loos, riducendo all’essenziale la casa, prospettava edifici austeri e disadorni, chiusi allo sguardo dei passanti, provava forse l’ultima drastica difesa dello spazio interno della casa dalla mobilitazione totale, dalla circolazione universale dei beni, delle persone e dei segni. Ma l’argine di Loos non è servito, e ormai nessuno si sente a casa propria: tra le mura domestiche o altrove. E non perché, esistendo, siamo già sempre gettati fuori, nel mondo, come voleva Heidegger, ma perché il mondo mette, se non l’occhio, almeno le fibre ottiche in casa nostra. Intimità, raccoglimento e accoglienza sono così violati, ed è in questo modo recisa la radice primaria della relazione etica fondamentale dell’ospitalità, che si riferisce sempre – come ha mostrato il filosofo Lévinas – a un’accoglienza nell’intimità della casa. Quando l’intimità è negata, negata è anche la possibilità dell’accoglienza.
Questa conclusione, peraltro, si sposa bene con le tesi di Jean Baudrillard sul carattere pornografico di simili spettacoli. La pornografia non starebbe ovviamente nelle effusioni dei protagonisti, ma nel dilagare della banalità. Per il filosofo francese, una strategia fondamentale dei media, e in particolare della televisione, consiste nel procurare allo spettatore l’impressione di essere più intelligente della qualunque persona che partecipa allo show. Di qui, secondo il principio della cattiva moneta che scaccia quella buona, il trionfo dell’insulsaggine. Che ha una duplice conseguenza: da un lato l’uomo non si schioderà più dalla poltrona, vista la soddisfazione che gli procura assistere allo spettacolo; e dall’altro non si produrranno più opere d’arte, visto che la testimonianza di vita di chiunque vale, agli occhi delle telecamere e alle orecchie dell’Auditel, più di qualunque messa in opera artistica.
Ma è veramente così? Davvero incombe sul nostro futuro un mondo piatto, insulso, banale, in cui hanno carattere di passato tanto la più eminente esteriorità, quella dell’opera d’arte, quanto la più eminente interiorità, quella della casa? Preferisco pensare di no. Ed opporre a questi ragionamenti due cose.
In primo luogo, il controsenso in cui ci si infila spesso e volentieri, quando aspetti storici dell’esperienza vengono portati sotto categorie interpretative di portata universale, addirittura “ontologica”. Se infatti la demeure, se l’opera appartengono davvero essenzialmente al modo umano di stare al mondo, le telecamere del grande Fratello possono alterarne le condizioni, ma non possono produrre un mutamento d’essenza. Se invece noi tutti, come gli intraprendenti giovanotti dello show, davvero non abbiamo più una casa, e un ethos da abitare poeticamente, allora vuol dire che proprio essenziale, proprio necessario quel modo non era. In secondo luogo, una domanda. Ma è mai possibile che ad ogni mutamento della cultura popolare di massa l’intellettuale di sinistra debba sempre sospettare che il bene stia in ciò che si perde nel cambiamento, e non invece in ciò che, forse, si può acquistare?