Parigi e il problema delle “periferie fallite”

In questi giorni, dopo i tragici attentati di Parigi, lo sforzo più grosso che sento di dover fare non è quello di resistere al sentimento della paura, ma alla sensazione di nausea che sempre più spesso mi coglie ogni qualvolta apro un giornale o ascolto un programma televisivo in cui illustri ospiti che fino a ieri l’altro sapevano tutto di casta, manine e calcio si scoprono teologi ed esperti di cultura islamica oltre che, ovviamente, strateghi di politica internazionale. La verità è che in questo paese sappiamo poco o niente di quello che accade attorno a noi, anche se tutti ne abbiamo un’opinione.

I tre ragazzi francesi che hanno scatenato l’inferno a Parigi non erano profughi siriani arrivati sui barconi, non erano pericolosi imam venuti dall’Egitto, non erano clandestini non meglio identificati. Erano tre persone che vivevano nelle banlieue parigine, che parlavano perfettamente francese. Erano tre francesi che erano rimasti esclusi dal lusso delle vetrine degli Champs Elysées perché nati e cresciuti nella periferia della metropoli. La loro reazione a questa esclusione è stata di rabbia cieca e, dopo aver fatto amicizia in carcere, hanno deciso di partire per diventare soldati di Al Qaeda. Probabilmente se fossero stati in Italia sarebbero diventati scagnozzi di qualche camorrista o ndranghetista. Esclusi e autoesclusi dalla “civiltà occidentale” hanno trovato le loro risposte nel nuovo totalitarismo del XXI secolo, il fondamentalismo jihadista.

Ora abbiamo il piacere di sentire leader politici come la Meloni che ci spiegano che il Corano è un libro intriso di violenza. Evidentemente la Meloni non ha mai letto la Bibbia, altrimenti si sarebbe accorta che è piena di violenze, vendette e calamità naturali, eppure nessuno di noi crede che gli ebrei siano violenti perché leggono la Bibbia. Se volessimo porci domande in grado di darci risposte, dovremmo invece guardare alle scelte compiute dai terroristi. La scelta di sferrare l’attacco non è ricaduta sulla sede di un partito (anche questo estremo simbolo della democrazia) magari xenofobo e islamofobo, né su qualche personaggio pubblico che va in giro a insultare chi la pensa diversamente da lui, bensì sulla redazione di un giornale satirico di sinistra dalla tiratura di circa 20.000 copie.

Mi si dirà che fa più paura una vignetta che un partito, ma io non credo, non a persone che hanno deciso di intraprendere una strada totalitaria e assolutista. Credo invece che Charlie Hebdo rappresentasse ciò che loro odiavano più di tutto anche perché era riservato a un’élite. Era un piccolo giornale di sinistra situato nel centro di Parigi, era ciò che odiavano anche prima di passare al fondamentalismo. A loro non interessava solo “uccidere gli infedeli”, nel primo attacco sono morti ben due musulmani, ma anche umiliare e terrorizzare quella parte del paese. Il risultato, comunque, è stato quello di infliggere un colpo terribile alla libertà di espressione e di satira, uno dei pilastri delle democrazie occidentali. L’obbiettivo era colpire al cuore le istituzioni democratiche, quelle stesse istituzioni dalle quali si erano sentiti esclusi.

Così i terroristi hanno rimesso in discussione decenni di trattati sulla convivenza e sul libero scambio di merci e persone in Europa, oltre che la stessa democrazia. La risposta bellissima e impressionante che tutto il continente ha dato nella manifestazione parigina ha sicuramente incrinato il loro disegno. Ma se vogliamo che tutto questo non accada più dobbiamo partire da dove sono partiti i terroristi: dalle periferie. Rendendole più sicure, rendendole luoghi in cui essere protagonisti della vita delle comunità, rendendole luoghi di inclusione e di integrazione e non più luoghi di esclusione. Solo così potremo dire di aver veramente capito la tragica lezione di Parigi.

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Giuditta Pini è parlamentare del Partito democratico