C’è una gerarchia di valore tra un bene culturale e l’altro? Ovvero, vale di più un’opera rinascimentale o una antica? E’ peggiore la prospettiva della perdita di un affresco di epoca augustea o di una statua barocca? Tenete presente questa domanda mentre provo a raccontarvi una storia.
Sappiamo che in epoca di Expo le opere d’arte migrano verso nord, come le rondini in primavera. Quadri che si trovano a Firenze si spostano in Lombardia e sculture solitamente romane partono per Firenze. D’altra parte sappiamo che da alcuni anni opere di autori molto carismatici, con soggetti accattivanti o la cui fama è stata amplificata da libri o film di successo, vengono molto corteggiate per soddisfare il rigoglioso mercato internazionale delle mostre. Suscitando giuste preoccupazioni per i rischi corsi dalle opere sottoposte all’inevitabile stress dei trasferimenti. E infatti si sono aperte sulla stampa due controversie intorno all’Annunciazione di Leonardo degli Uffizi e ai Bronzi di Riace, tutti richiesti per mostre milanesi nell’ambito dell’Expo. Erano schierati, da un lato, i sostenitori dell’inamovibilità delle opere e della preminenza delle decisioni dei direttori dei musei e, dall’altro, coloro che rivendicavano la necessità insopprimibile di esporre proprio quelle opere.
La discussione si è allargata oltre i confini dell’opportunità, coinvolgendo politici e amministratori, tutti certi di avere qualcosa di dirimente da dire, ricette da suggerire, interpretazioni psicologiche e sociologiche da offrire ai media. Ma questa volta hanno prevalso le ragioni dei direttori dei musei e di quelli che sulla stampa rivendicavano il primato dei giudizi tecnici e i diritti inviolabili dei musei: Annunciazione e Bronzi sono rimasti nelle loro città. Intanto, lo scorso ottobre, la commissione voluta dal ministero della Cultura per decidere sul prestito dei Bronzi stabilisce che, in generale, si deve evitare che i beni culturali siano sottoposti a spostamenti ripetuti e ravvicinati. Con soddisfazione di intellettuali, professori universitari e difensori della primazia della tutela.
Appena consumate queste vicende si apriva però il caso del Pugilatore del Museo nazionale romano. Il bronzo, ritenuto un originale greco tardo ellenistico databile intorno alla prima metà del I secolo a. C., è un’opera bellissima, raffinatissima e di grande impatto emotivo, anche se non gode dalla popolarità dei Bronzi di Riace o di Leonardo. E infatti la statua, malgrado lo stupefacente fascino, non assurge all’Olimpo delle opere universalmente carismatiche e non è ammessa nell’isola dei famosi che accoglie dame-con-ermellini, gioconde, bronzi a) e b) e fanciulle-con-orecchini-di-perle.
Il Pugilatore, che secondo i tecnici può essere trasportato, era stato promesso al Getty Museum di Los Angeles per la mostra “Power and Pathos: Bronze Sculpture of the Hellenistic World” che si terrà tra luglio e novembre di quest’anno. Fin qui, tutto bene. Ma il ministero riceve un’ulteriore richiesta di prestito da parte della Fondazione Palazzo Strozzi di Firenze (a 75 minuti di treno dal Museo nazionale romano) per l’edizione italiana della mostra californiana che aprirà a metà marzo per chiudere a fine giugno (naturalmente nell’ambito delle manifestazioni dell’Expo). A questa richiesta la direzione del museo romano decide di non dare seguito, non ultimo per evitare di affaticare troppo la statua. Ma sulla decisione dei tecnici del Museo nazionale romano piomba l’interferenza della direzione generale delle antichità che, d’imperio e salomonicamente, decide di concedere il prestito a entrambe le mostre, ma solo per un periodo limitato di tempo.
A questo punto ci saremmo aspettati la legittima levata di scudi da parte dei cultori della tutela e già pregustavamo le dichiarazioni in difesa della sacralità dell’autonomia dei direttori dei musei. E invece nulla. Zero. Nothing. Silenzio assoluto. E io mi domando da giorni la ragione di questa pesantissima quiete. Distrazione momentanea dei campioni della tutela? Le intrusioni extra scientifiche nelle decisioni squisitamente tecniche cambiano di gravità a seconda del mittente? O forse esiste un invisibile discrimine tra le opere più e quelle meno popolari che fa si che le prime siano più immediati generatori di indignazione per chi ne legge e di notorietà per chi ne scrive? In ogni caso, per rispondere alla domanda iniziale, sembra proprio che per alcuni intellettuali italiani un chilo di piombo pesi assai più di un chilo di piume. Almeno sui giornali.