Per l’Europa un ebook non è un libro

Ho comprato un lettore per libri elettronici soprattutto perché ho casa piccola e perché detesto viaggiare con valige troppo voluminose. E’ anche vero che gli ebook costano meno dei libri di carta e che quella tavoletta di plastica è davvero un mezzo straordinariamente utile. Tutto questo senza nulla togliere ai libri di carta. Perché un-libro-è-un-libro, come scandisce una campagna per l’abbassamento dell’Iva sugli ebook (recentemente decretata in Italia): è allo stesso tempo, nel medesimo spazio, un bene materiale (il supporto) e immateriale (il contenuto). Il che non è molto diverso da quanto accade con un disco in vinile, un cd o un lettore mp3. Sennonché, se siamo abituati a considerare l’immaterialità della musica, non altrettanto facciamo per i libri, probabilmente perché la fruizione di testi attraverso l’ascolto è un’eccezione piuttosto che la regola. Ma anche per il libro il contenuto non è mai indissolubilmente legato al supporto, cosa che accade, invece, con un’opera pittorica o una scultura, in cui senza il supporto fisico non esisterebbe neanche il contenuto.

In effetti, perdere la mia “copia” della Divina commedia è meno grave che smarrire una tavola di Ambrogio Lorenzetti. Ovviamente non sto parlando di prime edizioni, di manoscritti, di libri rari o antichi, che rivestono, rispetto al testo che contengono, un valore ulteriore per l’unicità, la rarità, il pregio artistico o documentale. E non parlo neanche della funzione metaforica dei libri di carta che, sistemati nella nostra libreria, rappresentano qualcosa di più e di completamente diverso da un elenco di files in un dispositivo elettronico.

Mi riferisco, invece, all’essenza fruibile del libro, al suo contenuto e ai suoi modi di trasmissione, oggi al centro, forse non del tutto consapevolmente, di ben due sentenze della Corte di giustizia europea su un ricorso della Commissione contro la Francia e il Lussemburgo. I due paesi avevano negli anni scorsi applicato alla vendita di libri elettronici un’aliquota Iva ridotta, equivalente a quella imposta sulla vendita dei libri di carta. Le ragioni della condanna da parte della Corte di giustizia sono interessanti e per certi versi illuminanti. La Commissione europea infatti sostiene che l’aliquota ridotta può essere applicata dagli stati membri solo alla cessione di beni e servizi elencati nell’allegato III della Direttiva Iva e, quindi, alla fornitura di libri su “qualsiasi tipo di supporto fisico”.

Il problema è che, se è assodato che il libro elettronico per essere letto ha bisogno di un supporto fisico, è pur vero che il testo (il contenuto immateriale) non viene fornito insieme al supporto (il lettore, la parte materiale). E a causa di questa passeggera scomposizione non può godere dell’Iva agevolata. Senza trascurare che l’ebook per l’Europa non è un prodotto culturale ma un servizio fornito per via elettronica: un ambito, chissà mai perché, assolutamente escluso dall’Iva agevolata.

Tutto ciò sembra francamente un po’ ridicolo e anacronistico, ma spiega come nella civiltà delle immagini la forma espressiva scritta (purché su supporti tradizionali) continui a essere considerata superiore a ogni altra; ed è anche il segno della persistenza dell’idea per cui la riproducibilità tecnica/digitale di una creazione comporti la sua svalutazione rispetto al mondo delle opere uniche. La replicabilità, infatti, riconduce l’opera a un ambito industriale e di massa che ne riduce il prestigio culturale a prescindere dalla sua qualità intrinseca. Non sarà un caso se l’Iva sui prodotti audiovisivi e musicali applicata dall’Ue (che siano riprodotti su vinile o scaricabili dalla rete, che si tratti di Vivaldi o di Rihanna) è sempre superiore a quella sui libri (che si tratti di Kant o di Peppa Pig).

Mi rendo conto che oggi polemizzare con l’Unione europea non sia esattamente originale. Ma forse è davvero ora di alzare il tiro in tema di politiche culturali anche europee (specie alla luce di obiettivi, finora mancati, come l’economia della conoscenza), ripensando i criteri di tassazione, ma ancor prima di sostegno alla produzione e ai consumi dei prodotti culturali per facilitarne (e addirittura incoraggiarne) il consumo, la fruizione da parte dei cittadini, specie nei paesi più fragili sotto questo aspetto. Ed è ora di iniziare a pensare ai supporti, digitali o meno, per quello che sono: dei contenitori di informazioni che, se opportunamente elaborate, diventano conoscenza e cultura. Sempre che non si stabilisca che debbano essere i governi a stabilire attraverso quali mezzi e quali forme espressive i cittadini possano avvicinarsi alla cultura. E io preferirei di no.