Cominciamo dalla croce: smaltata di bianco, filettata d’oro – la legge stabilisce anche le misure: 52 millimetri – attraversante due rami di ulivo e di quercia d’oro posti in cerchio. La placca misura invece 80 millimetri e ha «forma di raggiera convessa, costituita da quattro gruppi di raggi d’argento intagliati a punta di diamante». Infine, il nastro per portare la croce al collo: con i colori dell’ordine, di millimetri 50, listato in rosso. Questo per l’onorificenza di Grande Ufficiale. Per quanto riguarda invece il Cavalierato del lavoro, la decorazione è più modesta: una «croce greca smaltata di verde e bordata d’oro, caricata di uno scudetto tondo recante, su di un lato, l’emblema della Repubblica e, sull’altro, la dicitura “Al merito del lavoro -1901″». Anche questa croce sta appesa ad un bel nastro: verde, listato al centro di rosso. Bene, cosa rimane? Ah, sì: il fazzoletto. Bianco, privo di liste o filettature, privo anche di scritte o emblemi, della lunghezza approssimativa di 45 centimetri, alto circa 25 millimetri, legato all’altezza della collottola e attraversante la bocca. A mo’ di bavaglio, insomma. Va portato in piazza, indossando una maglietta di cotone anch’essa bianca, a maniche corte, insieme a un gruppetto di giovani militanti entusiasti del movimento denominato chissà perché «Italia unica», disponibili a cantare tutti insieme l’inno nazionale. Naturalmente col bavaglio in bocca.
Il Cavaliere del Lavoro nonché Grande Ufficiale della Repubblica Italiana Corrado Passera, già amministratore delegato delle Poste Italiane, già amministratore delegato di Banca Intesa, già consigliere di amministrazione dell’Università Bocconi, già ministro dello Sviluppo economico nel governo Monti, già un mucchio di altre cose, ha quindi inscenato la clamorosa protesta dinanzi a Montecitorio, senza peraltro suscitare alcun allarme né provocare il minimo sconcerto nel resto del mondo politico o – che so – nelle cancellerie internazionali. E la domanda allora non è chi è Corrado Passera, come diceva l’indimenticato cabaratterista di Colorado: chi è lo sappiamo infatti fin troppo bene. La domanda è: perché? Perché lo fa? Perché si è inventato un movimento politico dal nulla, e al nulla con ogni probabilità destinato a tornare, e perché ora si caccia in queste situazioni francamente imbarazzanti come nemmeno un grillino, o un leghista alle sorgenti del Po?
Nella biografia di Corrado Passera, pur in mezzo a molte circostanze fortunate e a moltissimi successi personali, il vero momento di svolta deve essere stato quel dì fausto in cui fu chiamato da Mario Monti a guidare il ministero dello Sviluppo economico. Un uomo abituato come lui a tenere per le mani un pezzo consistente dell’economia italiana deve aver pensato che non poteva certo spendersi per meno, una volta entrato in politica. Non per meno, anzi, sicuramente per qualcosa in più. Che però non veniva. Anzi. In vista del voto – questo scomodo inciampo della democrazia – Monti perdeva tempo con Casini, perdeva tempo con Fini, si impantanava, cincischiava, volava basso, smarriva lo spirito che solo un’autentica generazione di ottimati, arrivata finalmente al governo, poteva immettere nella politica italiana per dare una sterzata al paese. E perdeva rovinosamente le elezioni.
È finita male per Monti, ma dopo di allora la politica italiana ha davvero sterzato. Con qualche singulto ma ha sterzato. Senza, però, Corrado Passera. Senza che nessuno gli chiedesse di presiedere alcunché. Senza nemmeno uno straccio di Capo dello Stato che gli chiedesse un piano di salvataggio (o almeno di rinascita) del paese: niente. Lui, però, non si è perso d’animo. Ha messo da parte croce e nastrini e si è rimboccato le maniche. E ha approntato la cura shock, il piano-monstre, il colpo di reni che rimette in sesto il paese.
E però è dura, ragazzi. È dura sentirsi come Neo, il predestinato di Matrix, quando però non è come nel film, che non ci credi tu, alla tua predestinazione, ma tutti gli altri sì, eccome. Qui, purtroppo, sono gli altri che non ne vogliono più sapere, mentre tu continui invece ostinatamente a crederci. E fai sul serio, fai come se il mondo, l’Italia, qualcuno se ne potesse ancora accorgere: così costruisci un movimento, tieni l’assemblea fondativa, eleggi gli organismi interni, roba che – amara ironia del destino – i partiti, quelli veri, quelli che prendono i voti per davvero, quasi non fanno più. Eleggi dunque gli organismi, scrivi i programmi, ogni tanto lanci pure gli appelli e aspetti. Aspetti. Qualcosa dovrà pur accadere. E mentre aspetti metti il bavaglio, gridi alla legge-cerotto, ogni tanto vai pure nei salotti televisivi (anche se quelli della finanza, bisogna ammetterlo, erano tutt’altra cosa) e dici la tua. E credi davvero a quel che dici: «Popolare moderno e riformista radicale». E aspetti per vedere di nascosto l’effetto che fa. Ma non fa nessun effetto. E a noialtri che ti capiamo non resta che pensare: ecco un altro che il paese non lo merita. Per fortuna.