Le domeniche gratis al museo sono una gran bella iniziativa. Specie se uno al museo ci va di mercoledì e la domenica, invece, la trascorre a casa o in un parco a passeggiare.
Sono fermamente convinta che forme di gratuità diffusa nei musei (e casomai anche per le mostre) siano necessarie oltre che opportune. Ma io, a meno di non essere obbligata, il giorno di entrata gratuita al Colosseo, al Museo nazionale romano o in altri musei di grande fama, non ci vado. Un articolo dell’edizione napoletana di Repubblica di qualche giorno fa ci spiega che, in quei giorni, non è neanche il caso di andare all’Archeologico di Napoli. Il giornalista ci racconta l’ordinaria follia di una domenica gratuita al museo: nella folla si distinguono quelli che toccano un’anfora per saggiarne la solidità (“Signora mia, una volta le anfore le facevano solide”) e coloro che scavalcano le transenne per avvicinarsi a preziosissimi mosaici, senza dimenticare chi si mette in posa per una foto maliziosa accanto a un’antica scultura fallica. Ma al di là di questi episodi, quello che generalmente affolla i musei nei giorni di gratuità è un pubblico spesso inconsapevole e soprattutto disorientato.
Sia chiaro, non c’è nulla di spocchioso o di snob nella mia affermazione. Io credo che i musei debbano avere tanti visitatori, che sia bello, sano e utile che siano percorsi da papà, mamme e bambini, da scolaresche, da turisti e da cittadini, ancorché distratti e un po’ scomposti. L’obiettivo, infatti, non è tornare (o, in alcuni casi, rimanere fermi) al museo paludato, nel quale si deve necessariamente bisbigliare e scivolare via silenziosi, tenendo un contegno solenne. I musei sono semplicemente, al pari delle biblioteche, degli studi medici, dei cinema o dei parchi di divertimento, luoghi nei quali ci si deve comportare in maniera rispettosa e adeguata al contesto.
Non c’è dubbio che se a Disneyland cantassi canzoni oscene, tagliassi le orecchie a Topolino o toccassi il sedere al principe azzurro qualcuno interverrebbe immediatamente per accompagnarmi all’uscita. E questo accade perché quel parco nasce in funzione della fruizione di massa e con essa si confronta con naturalezza: tanta gente, tanto pubblico, comporta tanto controllo e tante regole che devono necessariamente essere rispettate affinché la macchina spettacolare funzioni e gli astanti traggano il maggior diletto possibile dall’esperienza. La maggior parte dei nostri musei, invece, non nasce per accogliere un pubblico vasto, diversificato ed eterogeneo nelle competenze e nelle esigenze di visita. Per sovrappiù i nostri musei e le politiche culturali (con rispetto parlando) hanno sostanzialmente ignorato le trasformazioni sociali degli scorsi decenni e l’avvento della cultura di massa che è addirittura fonte di insofferenza per certi ambienti intellettuali e beneculturalisti.
In tempi più recenti si è finalmente compreso che con la cultura di massa, invece, si doveva in qualche modo fare i conti: era impossibile continuare a fare gli gnorri di fronte a quella folla sempre più grande di persone che decide di entrare in contatto, in un modo o nell’altro, con le forme culturali “alte” e che si trova spesso disarmata di fronte a una terra incognita, difficile da interpretare e di cui ignora regole e prassi. Ma fare i conti con tutto questo non significa semplicemente elargire l’entrata gratuita al Colosseo una volta al mese, senza occuparsi dell’effetto prodotto da quella folla sui musei e sugli stessi visitatori. Perché se invito trenta sconosciuti a cena nel mio monolocale di quaranta metri quadri e poi decido di parlare solo in ungherese, tolgo le sedie, spengo le luci, non preparo nulla da mangiare e chiudo a chiave il bagno, non sto facendo un favore ai miei ospiti (che, probabilmente, la prossima volta declineranno più o meno gentilmente il mio invito) e neanche alla mia casa.
Se avessimo davvero a cuore quei visitatori, soprattutto gli absolute beginners, dovremmo offrir loro il meglio, dar loro la possibilità di essere accompagnati tra le sale, di guardare e capire, di non spintonare e non essere spintonati di fronte alle opere: dovremmo, semplicemente, trattarli bene, da ospiti d’onore e non come una massa indistinta che fa numero nelle statistiche. Dovremmo chiamare, in quelle domeniche, tanti custodi che spieghino pazientemente e fermamente che le regole vanno rispettate anche e soprattutto nei musei, tanti esperti capaci di avvicinare quei visitatori al patrimonio culturale e di accendere il desiderio di tornare in quelle sale.
Questo esperimento di gratuità domenicale, con tante file fuori e tanta folla dentro i musei, dovrebbe indurci a pensare che un solo giorno di entrata libera evidentemente non basta e che, addirittura, in queste condizioni rischia di essere dannoso. Ma la soluzione non può essere solo la limitazione degli accessi. Di fronte a tanta domanda, non sarà meglio ampliare i giorni di gratuità? Non sarà meglio, ad esempio, aprire i musei gratuitamente anche tutti i pomeriggi per due ore prima della chiusura, quando i musei sono spesso semideserti? Sempre ammesso (e non concesso) che i musei pubblici italiani (finanziati, val la pena di ricordarlo, dalla fiscalità generale) siano ancora, come spiega l’International Council of Museums, quelle “istituzioni al servizio della società e del suo sviluppo, aperte al pubblico, che effettuano ricerche sulle testimonianze materiali e immateriali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisiscono, le conservano, le comunicano e specificamente le espongono per scopi di studio, educazione e diletto”. E sottolineo “diletto”.