La prima repubblica è stata l’epoca dei partiti di massa, la seconda quella delle coalizioni, del presidenzialismo di fatto e dell’elezione diretta di sindaci e presidenti di regione, in una deriva che a molti è sembrata, e continua a sembrare, inarrestabile. È legittimo chiedersi con qualche preoccupazione cosa sarà della terza repubblica. Per delinearne i tratti di fondo è indispensabile capire la traiettoria del Partito democratico, che nel corso di questi mesi ha assunto una funzione centrale alla luce di due fondamentali fattori: lo sfaldamento del centrodestra e l’assoluta irrilevanza del Movimento 5 Stelle. Questi elementi, insieme alle cifre da capogiro delle elezioni europee (è stata alla fine una legge iperproporzionalista a regalare al Pd il suo massimo storico) hanno dato l’impressione che l’intero sistema, persino oltre le intenzioni di Matteo Renzi, fosse argilla nelle mani del Partito democratico. Un’impressione che le elezioni regionali hanno certo ridimensionato, senza tuttavia cambiare la sostanza della questione, e cioè il legame che si è creato tra le sorti del Pd e quelle del sistema politico.
Maggioranza e minoranza del Pd, gruppi parlamentari, gruppo dirigente largo hanno oggi l’occasione irripetibile di chiudere la lunghissima stagione della repubblica dei populismi. Oramai ne abbiamo perso il conto: populismo antipolitico, populismo xenofobo, populismo antieuropeo, populismo territoriale, populismo giudiziario, populismo sindacale. Sono queste le correnti che hanno spalancato le porte al più algido e fragile governo delle tecnocrazie europee. A conti fatti la vera sfida con cui il Pd si confronta è facile da individuare: democratizzare il governo dell’economia europea e costruire attorno a questo obiettivo la sua missione in Italia.
Fare fino in fondo i conti con i populismi è possibile solo ricostruendo i canali della partecipazione alla politica democratica. Il Pd esercita una straordinaria forza di attrazione che può essere la leva per regalare all’Italia una nuova classe dirigente o, al contrario, lo spazio dentro al quale trasformismi e populismi si mescolano (camminano sempre a braccetto) in un mix esplosivo. La proposta di dare finalmente applicazione all’articolo 49 della nostra Costituzione è una prima risposta a questo problema. Regolamentare per legge la vita interna ai partiti è certo una scelta forte e invasiva, ma è anche una delle poche strade per provare a ricostruire una democrazia degna di questo nome.
La novità principale della legge elettorale a cui il Pd ha legato la sorte della legislatura è la scomparsa del concetto di coalizione elettorale, sostituita da quello di lista-partito. In altre parole, l’assegnazione di un premio al primo partito va accompagnata, per la salute della nostra democrazia, a potenti correttivi che garantiscano il ritorno alla funzione primigenia delle forze politiche: strumenti con cui i cittadini concorrono a determinare la vita democratica del paese. È questa la migliore sfida che si può lanciare alle illusioni della democrazia diretta e alla tecnocrazia reale. L’articolo 49 è il tassello che manca alla possibilità di restituire piena legittimazione alla “decisione” tanto invocata come esito mai raggiunto dalla politica italiana.
Se la Germania è oggi la potenza egemone in Europa lo deve anche al suo solidissimo sistema politico, di cui la vita democratica dei partiti è perno essenziale, a prescindere dal numero di iscritti che annoverano. Sfidare l’egemonia tedesca è possibile solo con una classe dirigente e un sistema politico altrettanto solido. Rinunciare a fare questa battaglia fino in fondo significherebbe arrendersi a una politica insieme padronale e trasformistica a cui stiamo già pagando un conto abbastanza salato: il regno dei ricchi e dei cacicchi. Forse ci meritiamo qualcosa di più, e dopo la clamorosa stupidaggine fatta abolendo il finanziamento pubblico ai partiti è ora di battere un colpo.