Vignette danesi e infelicità araba

La vicenda delle vignette su Maometto è la cartina di tornasole per misurare, ancora una volta con preoccupazione, quanto siano tesi, in questa caotica fase storica di transizione mondiale, i rapporti tra occidente e resto del mondo. E mentre in altri continenti ciò si esprime con una competizione economica, si pensi a Cina e India, o con il voto – per esempio in America Latina, ora un continente governato interamente dalla sinistra su basi di orgoglio indipendentista – i popoli arabi questo non riescono a farlo. Ripiegando così su guerre e dimostrazioni di rabbia impotente. In sé la vicenda è quasi banale: a fine settembre 2005, su un giornale danese – il Jyllands Posten – vengono pubblicate alcune vignette satiriche con oggetto Maometto. Un ventottenne danese di origini libanesi, Ahmed Akkari, portavoce del “Comitato Europeo per la Celebrazione del Profeta” – un’organizzazione che raccoglie ventisette gruppi mussulmani danesi – protesta con il governo del suo paese. Per i primi due mesi non ottiene ascolto e non riesce a consegnare all’Ufficio del Primo Ministro le 17mila firme di protesta da lui raccolte. Si rivolge quindi agli ambasciatori dei paesi mussulmani in Danimarca, chiedendo loro di parlare con il Primo Ministro. Il quale si nega anche a loro. A questo punto, c’è il salto di qualità: Akkari si reca al Cairo e incontra il Gran Muftì e Amr Moussa, segretario della Lega Araba. E comincia un fraintendimento – anche voluto e poi usato – che sfocia nel summit di dicembre dell’Organizzazione della Conferenza Islamica (Oci), peraltro più nota per essere stato il palcoscenico degli insulti di Ahmadinejad verso Israele. E poi nelle dimostrazioni di questo inizio 2006.
Che cosa ha spinto tanta gente, più o meno spontaneamente, nelle piazze di Beirut, Damasco, Il Cairo, Gaza, Amman? Non il contenuto delle vignette, che fino a quando è rimasto al centro della questione ha sviluppato una contesa del tutto locale. Bensì il suo contesto: cioè la questione della difficile relazione tra arabi e occidente, sempre più spesso purtroppo declinata in termini morali – dagli estremisti delle due parti – come rapporto tra Islam e Occidente cristiano. Quando essa diviene tesa e unidirezionale, facendo sentire impotenti i primi, divampano questi incendi. Non è la prima volta. Diciassette anni dopo, ecco un altro caso simile alla fatua contro Salman Rushdie e il suo libro Versetti Satanici: anche lì l’affaire per la pubblicazione del libro (peraltro sempre in settembre) prese quota piano piano, anche lì nacque da una protesta in Europa del nord (a Leicester, in Inghilterra), anche lì il caso fu portato a una riunione dell’Oci. Anche lì il caso deflagrò dopo alcuni moti di piazza del 14 gennaio 1989, a Bradford e a Islamabad, che un Khomeini in cerca di riscatto decise di rilanciare emettendo la fatua del 14 febbraio seguente. Infine, anche lì la dottrina – il testo – fu soppiantato nella seconda fase dal contesto, quello politico. La dottrina infatti ammetteva, anche se con riluttanza, che il Profeta Maometto fosse un uomo, e dunque avesse potuto commettere errori: uno di questi era l’inclusione nel Corano di alcuni versetti, inseriti durante il suo soggiorno alla Mecca, dove Maometto aveva avviato un dialogo con la locale e ostile tribù idolatrica dei Quraish per convertirla al monoteismo. Quando però egli realizzò – secondo gli Ulema dopo solo una notte – che i versetti inseriti nella Sura 53 detta “della Stella” erano in realtà ancora una esaltazione di idoli (eccoli: “Sono le Dee sublimi – e l’intercessione loro è augurabile certo”), li tolse, secondo la leggenda definendo il tutto un tranello di Satana. Tali versetti dai non mussulmani sono definiti ironicamente “versetti satanici”. La politica mise l’accento su questo ultimo dato di irrisione, fastidioso perché richiama un supposto errore di Maometto, e lo utilizzò. In particolare Khomeini, che era alla fine della sua era, perché oramai indebolito e messo all’angolo dall’occidente grazie alla guerra mossa dall’Iraq per suo conto. Decidere di ideologizzare lo scontro e polarizzare le forze – come ben si vede in questa campagna elettorale italiana – è l’ultima carta in mano a un uomo che ha perso tutto sul tavolo di gioco. Ma ieri come oggi la cosa ha un seguito se esiste un giacimento di impotenza e di rabbia. Ieri era l’arrestarsi della rivoluzione islamica khomeinista. Oggi è l’impotenza degli arabi. “L’infelicità araba” l’ha definita l’intellettuale libanese Samiri Kassir nel suo ultimo libro appena tradotto da Einaudi, scritto poco prima di saltare in aria con la sua macchina lo scorso giugno.
Il mondo arabo si trova dunque davanti al problema di un difficile rapporto con la modernità occidentale: c’è chi sostiene che esso è stato occasionale e difficile perché l’Islam è antimoderno, come gli orientalisti alla Bernard Lewis e i suoi epigoni politici neoconservatori; c’è chi sostiene che di fronte alla globalizzazione economica del nemico debba essere proposta l’ “altra” globalizzazione, quella della morte e del Jihad; e c’è – in mezzo – chi sostiene che l’Islam ha avuto storicamente un continuo rapporto con la modernità occidentale, e che esso semmai si è interrotto negli ultimi venti anni. Dunque esso non dovrebbe essere negato – come fanno i jihadisti, che usano questa lettura per indirizzare l’infelicità araba verso un vittimismo da cui distillare una cultura della morte – bensì riallacciato. Per questi ultimi, dunque, l’Islam non sarebbe antimoderno, bensì poco moderno. Ma, sostiene Kassir, “uscire dall’infelicità è qualcosa che gli arabi dovrebbero fare da soli”. Però i neoconservatori, considerando il cambiamento impossibile dall’interno, lo vogliono portare dall’esterno. Ed ecco l’intervento in Iraq. Che accresce la sensazione di impotenza, dunque la rabbia: un sentimento che è possibile dirigere contro nemici esterni – rafforzando così anche nel mondo arabo la lettura jihadista (e neocon) della guerra al terrorismo come una guerra all’Islam – e difficilmente tuttavia può essere utile per costruire all’interno le condizioni del mutamento. E lo si vede dal suo fallimento: malgrado le ricorrenti assicurazioni contrarie, rapporti appena declassificati dell’esercito Usa indicano come la capacità della guerriglia irachena di colpire sia andata costantemente aumentando nei quasi tre anni passati dall’invasione. Specularmente, poi, si decide di costruire in Iraq grandi basi fortificate per le truppe Usa, segno eloquente – come fu in Vietnam – che non si riesce a controllare il terreno. Insomma, il caso delle vignette di Maometto è come ogni grande incendio: esso spesso viene appiccato da qualcuno del posto, magari interessato a svaligiare le case della gente che fugge oppure a speculare sui terreni. Ma può divampare se esiste incuria del territorio. E forse il modo migliore per impedirlo non è occupare la foresta, ma sensibilizzare la popolazione e isolare i piromani. E dotarsi di aerei antincendio, che scarichino acqua e non solo bombe.