Vignette danesi e populismi europei

A voler dare ampiezza e profondità all’affaire delle caricature jutlandesi di Maometto occorre andare alla vittoria elettorale del centro-destra danese nell’autunno 2001. Una vittoria piena di discontinuità, che il vostro qui presente scandinavista aveva a sua volta stoltamente sottovalutato. In quei mesi del 2001, sconvolti dall’attentato delle Twin Towers, si andavano determinando alcune trasformazioni che per processo cumulativo avrebbero condotto alle circostanze odierne. Nel 2001 la campagna elettorale di Fogh-Rasmussen si era incentrata sullo skattestop, la promessa non solo di non far crescere il livello impositivo medio, ma di non far crescere nessuna singola tassa. Era già questo un inedito, visto che l’attuale primo ministro era stato, da titolare dell’Economia, il più deciso thatcheriano negli esecutivi liberal-conservatori degli anni Ottanta: un campione della riduzione, non già della stabilizzazione, delle tasse. Ma si trattava di un inedito comprensibile solo completandolo con un altro: l’alleanza con i populisti del Dansk Folkeparti, che si accingevano a diventare il puntello parlamentare “esterno” del suo governo di minoranza. Con Pia Kjærsgaard il populismo si era trasformato: da prevalentemente anti-tasse era divenuto pressoché esclusivamente nazional-identitario. Esso intendeva difendere il welfare più protettivo e classico (sanità, pensioni ecc.) laddove i socialdemocratici e i loro alleati avevano invece dirottato risorse verso la flexicurity, cioè la combinazione di flessibilità e investimenti in formazione legati alla percezione di sussidi e indennità di disoccupazione. Per portare via voti alla socialdemocrazia, insomma, si prometteva una combinazione fra politiche fiscali accettabili ai ceti medi e tagli graditi ai ceti più misoneisti della classe lavoratrice. Elementi che però necessitavano di un collante, al contempo finanziario e valoriale: l’attacco all’immigrazione e ai progressisti, alla cultura universalistica, al tradizionale attivismo nella cooperazione del terzo mondo. Ecco dove recuperare le risorse per soddisfare i voti rubati dai populisti ai socialdemocratici, e senza aumentare le tasse. Tantopiù che si andava ingigantendo il fenomeno delle riunificazioni familiari, cioè dell’ingresso in Danimarca di congiunti di immigrati o discendenti di immigrati. Soggetti con una bassissima partecipazione al lavoro (40% circa, uno scandalo in Scandinavia) e per questo facilmente denunciabili come pesi morti del welfare. Insomma: andava attaccata la linea radical-liberale (cioè degli alleati della socialdemocrazia) di accoglienza dei profughi, e di continuazione della proiezione internazionale danese tramite una ricca cooperazione internazionale. E andava anche attaccata (quanto a stravolgerla davvero è altro affare) la convinzione socialdemocratica di potere col tempo, con la miscela di redditi e di istruzione, attivare una quota crescente di immigrati.
A questo fine è stata disdetta la tradizionale pratica di fare le leggi finanziarie con l’opposizione. Ed è stata accresciuta l’ostilità alla cultura islamica. Di cui l’arruolamento nella guerra di Bush è stata ovvia consenguenza. Peraltro coronata dalla solita polemica storica ad hoc di questi anni: bisognava, ha detto Fogh-Rasmussen, andare in Iraq anche per riscattare gli anni in cui il governo di Copenaghen, anziché andare in esilio, aveva convissuto con i nazisti dopo la facile invasione tedesca del 1940.
Ecco, c’è questa miscela ideologica alla base delle sciocchissime caricature del profeta. E soprattutto alla base dell’incapacità, da parte di Fogh-Rasmussen, di vedere dove si stava cacciando, col suo insistere sulla libertà di espressione, proprio in quanto impegnato nel fragilissimo processo di democratizzazione in Iraq. Basta vedere, a paragone, come Jack Straw, ministro degli Esteri britannico, abbia con ovvia saggezza politica definito le caricature “inutili, insensibili, irrispettose e sbagliate”. Ma il problema di Fogh-Rasmussen sta nel non potersi smarcare dai populisti e dal clima che consente loro non solo di sostenerlo in parlamento, ma di mettere in difficoltà i socialdemocratici sequestrandone i voti più inclini alla xenofobia e alla concezione protettiva del welfare.
Per mettere in difficoltà la socialdemocrazia e perpetuare la fuga dei suoi voti nel grembo populista, peraltro, è stato attaccato anche un altro caposaldo della tradizione politica danese: la partecipazione diffusa delle associazioni d’interesse (soprattutto di sindacati e confindustria) alla produzione di regole e leggi. In questo quadro va vista anche la tendenza a togliere alle parti sociali dosi crescenti della gestione decentrata e fortemente orientata all’istruzione della flexicurity. Si va imponendo, invece, una tendenziale centralizzazione: la legislazione anziché il patto fra le parti; lo Stato e le burocrazie anziché la cogestione sindacati-imprenditori. Suscitando obiezioni sia sindacali sia confindustriali. In tutto questo la “buona borghesia” di sempre, rappresentata soprattutto dai conservatori a disagio al governo e dai radical-liberali progressisti all’opposizione, vede con preoccupazione l’avanzata della regolazione centralizzata del mercato del lavoro. E si avvertono infatti le avvisaglie di una lotta culturale nel centro-destra: con il quotidiano copenaghese Berlingske-Tidende (fondato nel 1746) a mostrare freddezza per le trovate vignettistiche dello jutlandese Jyllands-Posten. Con l’intellettuale conservatore e ministro degli Esteri Per Stig Møller a mordere il freno in questa crisi assurda. In cui la bandiera rossocrociata e millenaria per la prima volta va, almeno all’estero, accuratamente nascosta, anziché adornare, come fa da sempre, gli alberi di natale, le torte di compleanno, l’accoglienza del ritorno dei cari, gli zaini dei giovani viaggiatori danesi. Certo sono in tanti, oggi, in questi giorni in cui succede di tutto e in cui tutto può succedere, a scuotere il capo e a dire: “Chi l’avrebbe mai detto”.