La Grecia, secondo quanto stabilito con l’Eurogruppo, dovrà creare un fondo da 50 miliardi di euro, nel quale verranno trasferiti beni e attività da privatizzare, a garanzia del nuovo prestito. Ma prima ancora che l’accordo fosse siglato è tornata a circolare – come fosse attuale – una notizia del 2011 secondo la quale la Finlandia chiedeva, a garanzia dei prestiti concessi, beni pubblici greci tra i quali alcune isole e, addirittura, l’Acropoli di Atene con tutto il Partenone. Dopo il 2011, a dire il vero, non sembra che il paese scandinavo abbia reiterato la sua proposta. Tuttavia, poco più di un anno fa, la nostra Corte dei Conti avanzò un’ipotesi addirittura più sconcertante. La Corte, contestando a Standars & Poor’s il declassamento dell’Italia del 2011, accusò l’agenzia di rating di non aver conteggiato nel bilancio dello stato italiano il peso economico del patrimonio culturale valutato, dalla stessa Corte, in 234 miliardi di euro (non si sa se la stima venne fatta a peso, a metro lineare, a metro quadrato o a singolo articolo).
La verità è che inserire il patrimonio culturale nel bilancio dello stato significa renderlo disponibile alle pretese di eventuali creditori in caso di insolvenza del paese (e di questi tempi il default di una nazione non è ipotesi così peregrina): nella pratica si potrebbe pignorare Castel del Monte come se fosse un tv color 24 pollici. Ma la quantificazione del valore economico del patrimonio culturale pubblico (Colosseo, Galleria Borghese, Arena di Verona etc) è un’atto del tutto arbitrario, privo di senso e sostanzialmente impossibile.
Però ora immaginiamo, come se fossimo in un romanzo distopico (e con una buona dose di preconcetto pessimismo nei confronti dell’Ue), che effettivamente il Partenone sia stato inserito nel fondo di garanzia greco. Cosa accadrebbe in caso di insolvenza? I paesi Ue potrebbero smontarlo e poi risistemarlo di fronte alla sede della Commissione europea a Bruxelles. Il Fondo monetario internazionale lo potrebbe vendere alla Gran Bretagna per riunirlo “finalmente” ai marmi fidiaci del British Museum. Oppure lo si potrebbe dividere in pezzi da distribuire poi tra gli stati e le banche in proporzione al credito reclamato. Oppure, con un’ardimentosa operazione di esternalizzazione della gestione del sito, si potrebbero intascare gli introiti prodotti dalla bigliettazione e quelli generati dal copyright.
In ogni caso il Partenone (o la Galleria degli Uffizi) cambierebbe di proprietà, come accadeva solo qualche decennio fa quando si poteva senza grandi problemi comprare e vendere l’altare di Pergamo o la porta dell’antica Babilionia oppure razziare i cavalli di bronzo di san Marco, la Trasfigurazione di Raffaello o la Danae di Tiziano. Non sarà un caso se la Convenzione Unesco dell’Aja del 1954 sulla protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato proibisce “qualsiasi atto di furto, di saccheggio o di sottrazione di beni culturali sotto qualsiasi forma”. E le parole “sotto qualsiasi forma” si riferiscono proprio all’acquisto coatto, alla requisizione, alla confisca, all’espropriazione.
La Convenzione dell’Aja fu stipulata meno di un decennio dopo la fine della seconda guerra mondiale (e tre anni prima del Trattato di Roma che istituiva la Cee) e mostra come l’esperienza del conflitto avesse diffuso tra gli stati e i popoli una nuova e profonda consapevolezza del valore del patrimonio culturale per tutta l’umanità e per ciascun paese, e del suo fondamentale ruolo per il rafforzamento dell’identità culturale delle comunità e degli individui. D’altro canto la stessa Ue nella direttiva del 1997 relativa alla restituzione dei beni culturali usciti illecitamente dal territorio di uno stato membro, riconosce il diritto degli stati di “definire il proprio patrimonio nazionale e di prendere le misure necessarie per garantirne la protezione all’interno delle frontiere interne”. La legge di tutela italiana impone addirittura che i beni culturali demaniali non possono essere venduti e neanche “formare diritti a favore di terzi”, vale a dire che non possono essere dati a garanzia di un debito.
Dunque, malgrado le sconsiderate proposte finlandesi e gli scivoloni della Corte dei Conti, è evidente sia alla ragione che al sentimento che il valore del patrimonio culturale di un paese non potrà mai essere trasposto, tout court, in valore economico: non è al danno monetario che abbiamo pensato di fronte alla distruzione dei capolavori di Ninive e di Mosul ma alla definitiva perdita di testimonianze insostituibili per la nostra storia e la nostra civiltà. Perché, come ha scritto Philippe Daverio, il patrimonio culturale è un po’ come la mamma, che per ciascuno di noi ha un valore incalcolabile e che, tuttavia, non è un bene facilmente commerciabile.