Arrivando al Palalottomatica sabato pomeriggio, entrando in spalti pienissimi, penso a Boston, alla convention dei Democratici del 2004 che lanciava gli ultimi mesi di corsa di Kerry. L’ultimo giorno, dopo l’accettazione dell’allora futuro sconfitto, c’è stato un piccolo episodio, insignificante forse, anche se evidente nella diretta televisiva della Cnn. Kerry aveva appena terminato il discorso e i palloni che dovevano cadere dall’alto e riempire il Fleet Center tardavano a scendere. La festa di lancio perde il gran finale colorato e giocoso, evidenziato da un infido microfono acceso che dà voce alle urla di uno degli organizzatori, imprecante contro i “fucking” palloni traditori.
Anche a Roma, al Palalottomatica, per l’apertura della campagna dell’Ulivo, enormi mucchi di palloncini impacchettati accolgono il pubblico – e questa volta i palloni, festosi e ottimisti, cadono al punto e al momento giusto, tra gettiti potenti di coriandoli.
E anche a Roma, come a Boston, seppure in modi e mondi davvero diversi, resta la sensazione che sia mancato qualcosa e che quel qualcosa sia da ritrovare nei minuti finali. Se i palloncini rappresentano per Kerry la difficoltà di toccare le corde emotive degli elettori medi, così sono i coriandoli e i palloncini a nascondere e silenziare il picco emotivo più forte per Prodi, ritrovato a fatica nelle pagine interne dei quotidiani della domenica e in qualche sparuta immagine televisiva, almeno dei tg più compiacenti verso il professore: quell’abbraccio finale alla nipotina che gli corre incontro, la benevolenza e l’affetto del nonno, la sicurezza e la fiducia della bambina.
All’interno di una programmazione della convention che scorre bene – forse solo appena lunga – con buona regia, buona organizzazione, buona costruzione del palinsesto, il vero picco emotivo rischia di restare confinato nei momenti degli applausi e dei saluti. Non basta.
Non basta ricordare le radici, pur fondamentali e ben incastrate con le domande dei giovani – che permettono alla Maugeri, vj di Mtv scelta per presentare l’evento, di sentirsi finalmente a suo agio accovacciata per terra, equilibrando l’effetto apparentemente formale del tacco 12. Non basta l’Orchestra di Piazza Vittorio, che riempie con effetto vitale e coinvolgente gli spazi fisici del palazzetto e quelli temporali del pomeriggio. Non basta l’Italia che funziona, ennesimo talk show superficiale e pompato. Non basta la bravissima attrice che recita i numeri dell’Italia della destra, non aiutata da slide troppo aride. Non bastano i buoni interventi di Sbarbati (poco incisivo, come l’assenza del suo nome dai manifesti lasciava prevedere, e poco femminile), Rutelli (bravo nel rinunciare ancora al piacionismo per ragionamenti e prospettive politiche) e Fassino (ottimo nel recuperare toni appassionati a lui solitamente difficili). Non basta Crozza, che diverte e fa pensare, critica e autorinonizza, che piace ma non ha ancora quella forza carismatica ed etica che permette di trasformare il suo grido “Romano! Romano!” nel tormentone vittorioso. Non bastano le facce d’Italia che incorniciano i maxischermi, più vere delle campagne affissioni, ma non ancora autentiche e carnali quanto quelle di chi al Palalottomatica c’è venuto portandosi corpi e storie e passioni.
La convention è stata una prova di maturità ideativa e organizzativa. Dimenticati i tempi tristi della vita da mediano, questa volta l’Ulivo fa sul serio. Scenografia semplice ma efficace, finalmente eliminata ogni presidenza, con candidati e dirigenti in platea, e spazio centrale grande, basso, giallo e tondo, con un grande tappeto ulivista al centro e di sfondo un pianoforte e un vero albero di ulivo, simboli italici di concretezza e creatività. Un modello di convention meno scintillante e artificiale di quelli di Berlusconi, ma ugualmente riconducibile a un modello ormai completamente televisivo. Non c’è di fatto palco per gli oratori, in piedi davanti a un sottile leggio, con un grande spazio vuoto intorno, da occupare e riempire con le performance delle diverse specialità: canzone, monologo, talk show, intervista, relazione, chiacchierata. Manca solo il reality, il caso umano, e tutta la principale tv di questi anni è presente al Palalottomatica, con una predominante del gioco del “basta” che il leader-uomo-comune Bonolis aveva lanciato qualche anno fa nei pomeriggi domenicali degli italiani.
Ed è proprio qui, nell’incrocio tra una programmazione classicamente televisiva e la performance di un uomo tradizionalmente a-televisivo, che si inserisce il punto debole e quello potenzialmente forte di Prodi. Perché quello spazio vuoto intorno a sé, con una platea non da lezione, ma da striscioni e applausi e trombette da stadio, Prodi fatica a riempirlo. C’è un popolo di sinistra, di partito, diessino al Palalottomatica. E ci sono i giovani (più tra organizzatori e volontari che sugli spalti), i democristiani, le nuove antropologie della Margherita. E i curiosi, propensi ma attendisti, osservatori sensibili a ciò che succede in quello spazio vuoto che è al centro della scenografia e della proposta dell’Ulivo e dell’Unione. Non sono le parole a poterlo riempire. Non è il programma. Non è la serietà. Tutto questo serve, è fondamentale, ben fatto, centrato, ben proposto, conosciuto e importante per gli elettori. Ma quando Prodi stringe a sé la nipotina è altra cosa. È televisione nel senso più alto, perchè riesce a diventare vita. Ed è concreta e umana fiducia nel futuro. Se proprio una visione dell’Italia tra cinque o dieci anni il centrosinistra non riesce a raccontarla, almeno ci lasci un’immagine.