Nel rapporto 2014 pubblicato dall’Istat su Cittadini e nuove tecnologie, malgrado il perdurare della crisi industriale, e lo spaventoso aumento della disoccupazione giovanile, l’Italia si conferma come uno dei grandi paesi avanzati del mondo contemporaneo: uno straordinario mercato per personal computer, smartphone, imprese di telecomunicazioni, commercio elettronico e contenuti multimediali diffusi via web. La diffusione delle nuove tecnologie tra le famiglie italiane resta però decisamente al di sotto di ciò che era stato previsto ancora poco tempo fa, quando si pensava, per esempio, che l’uso di internet si sarebbe imposto assai rapidamente in almeno l’80% delle famiglie italiane, seguendo da vicino lo sviluppo raggiunto dalla televisione negli anni precedenti. Siamo ancora molto lontani da queste dimensioni: secondo il rapporto dell’Istat nel 2014 si è addirittura fermato l’aumento, rispetto all’anno precedente, della popolazione italiana che utilizza un computer e naviga su internet, bloccata a circa il 57% del totale (con età superiore ai 6 anni).
Se si vuole capire perché le cose stanno andando diversamente da come ci si aspettava, è necessario partire da tre constatazioni. Primo, le nuove tecnologie non sono tutte uguali: la diffusione del personal computer e quella del telefono cellulare (o dello smartphone) non sono necessariamente parallele, ma viaggiano su canali diversi, e possono dar luogo a esiti quantitativamente molto difformi. Secondo: il personal computer non è lo sviluppo della televisione; le sue caratteristiche lo avvicinano semmai a quello della stampa. Terzo, l’Italia non è la Gran Bretagna, né gli Stati Uniti, né la Germania.
C’è un fatto molto noto agli studiosi della lingua e dell’editoria italiane: da molto tempo si è stabilita una netta gerarchia in Italia tra oralità e scrittura, a tutto vantaggio della prima. Ciò dipende da alcuni differenziali che caratterizzano negativamente l’Italia rispetto agli altri paesi avanzati: abbiamo titoli di studio generalmente più bassi, una più bassa percentuale di laureati, un tasso di abbandono scolastico maggiore, un reddito minore e mal distribuito, poca mobilità sociale. Addirittura permane in Italia a tutt’oggi una sacca di semi-alfabetismo, se non di vero e proprio analfabetismo.
Lo sviluppo della radiofonia e della televisione, mezzi che usano la lingua parlata, è potuto avvenire nei fatti senza limiti, divenendo universale negli anni Novanta. Al contrario l’informazione stampata e la lettura di libri sono cresciuti molto meno, e nel 2000 toccavano circa il 60% della popolazione, con profonde differenze sociali e territoriali (Istat, Letture e linguaggio. Indagine Multiscopo sulle famiglie “I cittadini e il tempo libero” – Anno 2000). Questi sono i cittadini che leggono e scrivono testi per il loro lavoro, perché vanno a scuola o per le loro attività di tempo libero. Tra l’altro, anche la crescita di questa quota ha fatto segnare pericolosamente il passo negli anni più vicini a noi (Istat, Produzione e lettura libri – Anni 2012-2013). Sulla rigidità di questa quota di lettori/scriventi ha già attirato l’attenzione il linguista Tullio De Mauro (nel libro-intervista, La cultura degli italiani). Per ampliare il loro numero è necessario aumentare il tasso di scolarizzazione generale del paese e innalzare i suoi titoli di studio, e portarli quindi al livello raggiunto negli altri paesi avanzati. Non è un caso se questa quota di lettori/scriventi sia molto più alta nell’età scolare, in particolare negli anni che precedono l’esodo dalla scuola (quelli compresi tra gli 11 e i 14 anni di età), e poi da allora cominci a scendere inesorabilmente. Per molti italiani la fine del percorso formativo coincide con la fine del rapporto abituale con la scrittura. A mano a mano che ci si allontana dai banchi di scuola e dell’università si legge e si scrive sempre meno, con testi sempre più brevi, fino a quando questa abilità tecnica si riduce a un fattore soltanto strumentale: la compilazione di un modulo o la lettura di un avviso. Pertanto, sia i lettori abituali, sia coloro che usano il computer, raggiungono la stessa percentuale della popolazione nazionale (circa il 60%). La somiglianza di questo dato fa nascere il dubbio che i due gruppi siano largamente sovrapposti.
Ciò sembra confermato dalla ripartizione geografica e sociale dei due gruppi: entrambi sono differenziati nella penisola, e raggiungono nelle regioni del Nord percentuali nettamente più alte rispetto a quelle del Mezzogiorno continentale e delle isole. In tutta l’Italia settentrionale i lettori di libri sono il 67% (con un picco al 70% nel Trentino Alto Adige), e scendono attorno al 50% nel Mezzogiorno continentale e nelle isole, con almeno tre regioni che si collocano sotto questa cifra: Basilicata, Calabria e Sicilia. Per quanto riguarda coloro che usano un personal computer siamo al 61% nell’Italia settentrionale (anche qui con il Trentino Alto Adige che supera il 65%), al 49% nell’Italia meridionale e al 53% nelle isole, con il valore più basso (il 47%) in Basilicata (seguita da Calabria, Puglia, Campania e Sicilia). Una correlazione molto forte tra i due gruppi si può notare anche nei profili sociali: i lettori si affollano tra le famiglie a reddito maggiore, con collocazioni professionali più forti, con titoli di studio più alti; lo stesso vale per gli utenti di internet e computer. Si può ancora rilevare come i due gruppi si somiglino anche per le classi di età: i lettori tendono a concentrarsi nell’età scolare, e poi diminuiscono via via. Il fenomeno è ancora più macroscopico tra coloro che hanno un pc e usano internet: essi raggiungono un picco molto alto tra i 15 e i 24 anni, poi diminuiscono sempre più nelle classi di età maggiore.
Non è quindi un caso se l’Italia rappresenta uno dei maggiori mercati del mondo per la telefonia mobile (che ha ormai superato il 95% dei cittadini italiani ugualmente spalmati in tutte le regioni e i gruppi sociali), com’era stato in passato uno dei maggiori paesi del mondo per consumo televisivo: in entrambi i casi si tratta di mezzi prevalentemente orali. La scrittura telefonica (con sms, o sugli smartphone) è solo un uso secondario del mezzo. Diverso è il caso del computer, che è un mezzo prevalentemente scritto. Per accedervi, e per navigare in internet, bisogna avere un buon rapporto con la scrittura e con la lettura: e queste abilità, come si è detto, sono tutt’altro che a buon mercato tra gli italiani. Pertanto la diffusione del pc è andata tendenzialmente a sovrapporsi a quella che in precedenza era occupata dalla lettura abituale.
Da questo stato di cose si possono trarre alcune importanti indicazioni per una politica riformista. La prima nel campo educativo: le nuove e le vecchie tecnologie non sono in conflitto tra loro. Non si può quindi contrapporre la scuola del computer e del tablet a quella della matita, del quaderno e del libro; la scuola deve cominciare dalla matita e proseguire con l’informatica, perché impara a usare il computer chi scrive e legge abitualmente, mentre chi non sviluppa a sufficienza queste capacità non giunge mai ai mezzi informatici, e resta ancorato a televisione e telefono.
L’Istat ha valutato in circa 22 milioni gli italiani che non hanno mai usato internet (in nessuna forma) nel corso del 2014. Si tratta di una cifra colossale: più di un terzo del paese non usa la posta elettronica, non guarda i siti web dei giornali e della pubblica amministrazione, non è in grado di compilare una domanda on-line, non usa i social network. Non si tratta solo delle persone più anziane; circa metà dei giovanissimi (tra i 6 e i 10 anni), beffardamente chiamati “nativi digitali”, non ha mai messo le mani su un computer per il banale motivo che questo non è presente in casa. Qui sta dunque la seconda, fondamentale indicazione per una politica riformista: una quota vastissima del paese rischia di essere cancellata dalla percezione di una élite nazionale sempre più legata alla comunicazione elettronica.
L’agenda per modernizzare il paese non appare dunque molto diversa, oggi, da quella che si impose dopo il Risorgimento: i fattori di arretratezza dell’Italia sono strutturalmente gli stessi, e vanno affrontati con determinazione attraverso un’azione continua, che non molli la presa, pena il rischio di fare passi indietro. Il motore della nazione italiana, ciò che sostiene veramente la sua modernizzazione, è il sistema scolastico. Solo questo è riuscito, nello sviluppo dell’Italia lungo i suoi ultimi 150 anni, a spostare progressivamente i vincoli strutturali che caratterizzano la demografia di una nazione arretrata. Per questo è stato un grande atto di cecità civile, prima ancora che politica, un vero e proprio tradimento della nazione, il taglio di 8 miliardi (su 38 complessivi) che fu imposto alla scuola italiana nel 2008 dal ministero dell’Economia guidato da Giulio Tremonti (come ministro) e da Vittorio Grilli (come direttore generale). Non si è trattato di una manovra di finanza pubblica, dal momento che il debito italiano da allora è continuato a crescere. Quelle risorse sono state semplicemente spostate altrove, verso le voci di spesa che più sono salite: l’acquisto di beni e servizi (cioè l’aumento di esternalizzazioni e consulenze della pubblica amministrazione), le spese degli enti locali e regionali, la crescita stipendiale della dirigenza dello stato. Quelle risorse sono state cioè spostate dallo sviluppo universale alla rendita di potere: oggi cominciamo a vedere le conseguenze di quella decisione, in termini di un arresto della modernizzazione della società italiana. Attualmente i vincoli di finanza pubblica sono molto più stringenti rispetto al 2008, quando non era ancora esplosa la crisi finanziaria internazionale. Ma se vogliamo rimettere l’Italia sulla via dello sviluppo, dobbiamo cominciare a porre rimedio a quella scelta. Dopo anni di elogio di Franti, è arrivato il momento di pensare alla maestrina dalla penna rossa.