L’affettuosa stretta di mano del Papa a Fidel Castro all’Avana segue di due mesi il suo incontro con Evo Morales, il presidente boliviano che gli donò un crocifisso montato sulla falce e martello. L’incredulità e l’acredine con cui questi gesti sono stati commentati in Italia sono il segno di un grave provincialismo culturale. Parlando del regalo di Morales, Angelo Panebianco sul «Corriere della sera» del 20 luglio ha sostenuto che quel dono «non è un simbolo di giustizia ma di oppressione, il segno distintivo di una utopia che ha generato mostri». Gli fa eco ora Vittorio Feltri, sul «Giornale» del 21 settembre, che a commento del viaggio del Papa a Cuba si è sentito in dovere di ricordare che «il comunismo è morto e la sinistra, compresa quella rosa, socialdemocratica, non gode di buona salute»: pertanto, secondo lui, la «spartizione delle risorse finalizzata a sostenere i più deboli» invocata dalla Chiesa sarebbe semplicemente «velleitaria».
Secondo questi censori, il mondo in cui viviamo non sarebbe il prodotto della storia, che come tale può essere sottoposto a critiche ed essere suscettibile di cambiamenti: a loro giudizio noi vivremmo semplicemente nel migliore dei mondi possibili, un mondo che ha fermato il corso della storia e che in quanto tale deve essere accettato senz’altro dall’intera umanità. Quest’idea si è ben piantata nel cuore dell’Europa come eredità della Guerra Fredda, e contribuisce a isolare il vecchio continente dal resto del mondo (a provincializzare l’Europa). Meriterebbe forse riflettere di più su come la convinzione irremovibile delle élite continentali di aver toccato il punto più alto di un possibile sviluppo costituisca uno dei principali freni alla crescita dell’Europa, visto che secondo loro tutte le nostre energie dovrebbero essere ora impegnate a conservare tremebondi le ricchezze che abbiamo accumulato, e non possa essere immaginato un futuro diverso dal nostro presente.
Ma altrove la storia non si è fermata: grandi masse popolari hanno abbandonato in anni recenti le campagne e hanno raggiunto le grandi città dell’America Latina, dell’Africa e dell’Asia. Hanno abbandonato modi di vita tradizionali e per la prima volta sono entrate nella civiltà moderna. Tra loro nascono problemi nuovi e nuove domande: cresce la speranza di un cambiamento della propria vita, la fiducia di poter dare ai propri figli un mondo diverso. È questo il mondo in cui anche il marxismo, come tante culture politiche della modernità, compresa quella liberale, ha ripreso a vivere. Solo per fare un esempio, lo scorso luglio all’Università di Campinas, uno degli atenei di punta della realtà brasiliana, si è svolto l’VIII colóquio Marx Engels. I partecipanti (e i circa 400 relatori) venivano da tutto il Brasile, con significative presenze del restante continente latino-americano: qualcuno era giunto da più lontano, come l’australiano Peter Thomas, ora professore alla Brunel University di Londra, o Wei Xiaoping, dell’Accademia Cinese delle Scienze Sociali di Pechino. In America Latina il marxismo rappresenta un ingrediente importante delle culture politiche orientate allo sviluppo economico e sociale, e non è appannaggio esclusivo delle forze del movimento operaio. Si pensi ancora al caso brasiliano, dove sono di formazione marxista non solo i presidenti dell’attuale stagione progressista Luiz Inácio Lula da Silva e Dilma Rousseff, ma anche il presidente che ha guidato la nazione negli anni Novanta, Ferdinando Henrique Cardoso, che aveva invece un orientamento moderato.
Una curiosità: gli organizzatori del convegno di Campinas hanno presentato i risultati di una loro indagine statistica, fatta un po’ sul serio e un po’ per gioco, dedicata alla diffusione del marxismo nelle università brasiliane tra studenti e professori. Ne risulta che la fascia di età che mostra più interesse verso questo orientamento è quella tra i 26 e i 35 anni, rappresentata quindi dai dottorandi e dai giovani docenti; interessante il fatto che, sebbene la maggioranza di coloro che si dichiarano marxisti indichino una preferenza politica nei partiti della sinistra, il 30% di essi invece non mostri nette preferenze partitiche. Infine, una domanda dell’indagine chiede «con quali tradizioni/autori ti identifichi di più?»: le risposte comprendono Louis Althusser, Edward Palmer Thompson, la scuola di Francoforte, György Lukáks; ma la maggioranza relativa degli intervistati, il 33,2%, ha fatto il nome dell’italiano Antonio Gramsci. Chi scrive ha così partecipato incredulo a un’affollata tavola rotonda dedicata a fare il punto sugli studi gramsciani, e aveva in mente una lettera in cui Gramsci stesso racconta alla cognata della grande delusione che aveva dato a un anarchico siciliano, anch’egli arrestato, in un camerone del carcere di Palermo. Quest’uomo era rimasto sconvolto dallo scoprire che il suo eroe era in realtà un uomo di corporatura così fragile; «mi guardò a lungo – si legge nella lettera – poi domandò: “Gramsci, Antonio?” Sì, Antonio!, risposi. “Non può essere, replicò, perché Antonio Gramsci deve essere un gigante e non un uomo così piccolo”». Anche questa storia racconta di un pensiero politico di portata ben maggiore rispetto alla corporatura del partito politico che lo ha incarnato, tanto da riuscire a sopravvivere alla fine di quest’ultimo.