La legittima difesa nel selvaggio West

“Niente mi ha fatto pensare che fosse disarmato”, disse Wyatt Earp, seduto sul banco degli imputati il 16 novembre del 1881. Furono queste le parole con cui lo sceriffo di Tombstone si difese da una delle accuse di omicidio che gli vennero mosse dopo la più famosa sparatoria della storia americana: trenta secondi di pallottole furenti in cui furono uccisi i due fratelli McLaury e Billy Clanton, trenta secondi passati alla storia come la sfida dell’O.K. Corral. Wyatt Earp, i suoi fratelli Morgan e Virgil e John Henry “Doc” Holliday furono tutti accusati di omicidio volontario per avere sparato senza lasciare ai tre cowboy – termine con cui in Arizona si indicavano spesso i ladri di bestiame – il tempo di arrendersi e consegnare le armi, in quello che è diventato uno dei più celebri casi americani sulla legittima difesa.

Il processo doveva accertare se i tre fratelli Earp avessero agito in preda a un giustificato timore per la propria vita o se, invece, avessero regolato un conto personale con quei desperado. Perché avevano sparato così presto? Perché non avevano lasciato ai cowboy il tempo di arrendersi? Decine di testimoni e poche settimane dopo, le accuse contro Earp e gli altri cadranno, e nella sentenza si dirà che Wyatt Earp e i suoi avevano il diritto e il dovere di portare armi, avvicinandosi a un gruppo di uomini che credevano armati e che intendevano resistere all’autorità. L’esito fatale della sparatoria fu responsabilità dei Clanton e dei McLaury, mentre gli imputati – scriverà il giudice – erano pienamente giustificati nel commettere questi omicidi. Era il Selvaggio West, non a caso. Era la Frontiera: città e villaggi in cui ogni uomo girava armato, l’autorità era rappresentata dall’ufficio monocratico dello sceriffo e le sparatorie erano un mezzo di risoluzione delle controversie. Ma anche in quel mondo non regnava l’anarchia: potevi sparare per difenderti, era consentito uccidere, ma a determinate condizioni.

L’idea di farsi giustizia da sé esercita un fascino conturbante sui media e sulla politica in Italia, forse perché siamo cresciuti a colpi di Ford e Eastwood, forse perché paura e sicurezza personale sono sempre due valute di consenso incommensurabili. Le reazioni davanti ai casi di cronaca più recenti hanno riaperto l’eterna discussione sui limiti all’autodifesa nel nostro ordinamento. E qui serve uscire innanzitutto dall’equivoco su cui il dibattito si avvita.

La legge italiana prevede una disciplina della legittima difesa molto ampia, che consente l’uso della forza e la reazione ogni volta che questa è proporzionata a un pericolo reale e incombente, e afferma esattamente quello che i paladini della giustizia vorrebbero: quando sei in pericolo ti è consentito difenderti. Quello che la disciplina sulla legittima difesa non dice è ciò che nessuna legge al mondo potrà mai dire: sei libero di sparare a chiunque entri nella tua proprietà, in qualunque situazione. Perché questa non sarebbe legittima difesa, ma il diritto a diventare Charles Bronson, un giustiziere della notte.

L’aggredito, dicevano i latini, non ha la bilancia in mano, ma lo stato non può legalizzare indiscriminatamente l’omicidio, e così è necessario individuare dei parametri rigidi di pericolo e di proporzionalità tra azione e reazione: solo quando questi sono esauditi, si potrà scegliere di non punire la condotta di chi reagisce. La legittima difesa ha un limite invalicabile: la facoltà di proteggersi concessa al cittadino non può estendersi alla funzione punitiva. Posso difendermi, posso difendere la mia famiglia, persino i miei beni a determinate condizioni, ma non posso punire. Io non sono la legge. Ma quando la cronaca irrompe, questo equilibrio si spezza e il racconto di un paese insicuro e terrorizzato conduce a schierarsi immediatamente: il ladro è il male, il nemico di una società ordinata. Il dilemma etico è notevole: il nemico può essere sempre considerato un obiettivo? E un ladro disarmato è sempre un obiettivo? I più sfrontati lo dicono apertamente “se l’è cercata”, molti lo pensano in silenzio. Persino Massimo Gramellini – che non è propriamente un neocon americano – si è lamentato del “silenzio della sinistra intrappolata nelle sue astrazioni buoniste”, come se la ragionevolezza lo fosse, e quando un politico si è presentato a una diretta televisiva con una pistola in mano, quell’atto è stato giudicato più folcloristico che pericoloso.

Ma mettere un’arma in mano a un cittadino e lasciarlo libero di reagire, accettando la retorica dell’autodifesa rappresenta una resa incondizionata a ogni forma di populismo: è il passo indietro con cui si riconosce la propria inconsistenza, in un assurdo scontro tra la proprietà e lo stesso diritto alla vita. Ci sono due modelli sociali in tempo di pace: uno in cui la sicurezza è garantita dallo stato, e in cui non mi è consentito considerare sacrificabile la vita altrui, e l’altro in cui, invece, si diffonde l’idea che siamo tutti in pericolo, e ci si convince che difendere la proprietà a tutti i costi è un diritto. In entrambi i casi, però, deve essere un giudice ad accertare se un atto di violenza rientra o no nella legittima difesa, non i politici, non una trasmissione televisiva, non una raccolta di firme. La pretesa di introdurre nel nostro sistema un improbabile “modello americano” sull’onda emotiva del fatto di cronaca, eclatante ma statisticamente irrilevante, è una follia, e la forma di impunità assoluta che si vorrebbe introdurre non esisteva nemmeno nel Selvaggio West. Perché c’era un giudice persino a Tombstone.