Il ritorno al futuro ha inizio nel 1999, quando la casualità di uno show fa incontrare i Parallel Or 90 Degrees di Andy Tillison con i Flowers Kings di Roine Stolt. Per il primo, l’impostazione prog-retrò dei secondi è una folgorazione; a tal punto da influenzare non solo il materiale in preparazione per il proprio album solo ma anche l’idea di proporre una collaborazione con Stolt. Da cosa nasce cosa: alla fine, le famiglie PO90D e FK si fondono dando vita a una nuova band, The Tangent (il prosieguo, come nelle migliori tradizioni prog, richiede lo spazio di un romanzo).
Sin dall’inizio, la band dichiara le proprie intenzioni: riproporre (o, meglio, ripercorrere) con esattezza il timbro, il colore del progressive rock originario, con la sua classica struttura a suite, ciascuna divisa in più capitoli. E’ il ritorno dell’organo Hammond, la vendetta delle tastiere rutilanti.
La nostalgia, però, non è proprio portatrice di progresso: ammirata la tecnica dei singoli musicisti; apprezzata la filologica passione con cui rifanno Yes, EL&P, King Crimson, Genesis, Van Der Graaf Generator, eccetera; notati gli sprazzi d’improvvisazione jazzistica, quello che resta non sfugge all’impietosa sensazione del già sentito – e, quel che è peggio, del già archiviato. Nessuno tra i gruppi summenzionati (e più o meno sopravvissuti) produce da tempo nulla di paragonabile agli album del periodo d’oro del prog; nulla di paragonabile, per composizione e risultati, a paradigmi come “In The Court Of The Crimson King”, “Tarkus”, “Tales From Topographic Ocean”. Crisi d’ispirazione a parte, il momento non è più lo stesso: la musica è cambiata, esattamente come la società; non ha senso alcuno riproporre gli stessi fraseggi di allora, se non per sollecitare l’afflato nostalgico del fan meno aggiornato o catturare il neofita.
Questo non significa che non ci sia spazio, oggi, per il prog: la fioritura di nuovi gruppi verificatasi negli ultimi anni dimostra esattamente il contrario. Il peggior nemico di questo genere è tuttavia l’intrinseco istinto conservatore: un riflesso che spinge a guardare al passato, a fermarsi a quel punto preciso, a reiterarlo. Un’ansia d’eternità che spinge gli aspiranti Icaro verso l’implacabile sole del gigantismo formale.
Dopo l’interessante esordio con “The Music That Died Alone” (già di suo costellato da citazioni), The Tangent rincara dunque la dose con il nuovo (terzo lavoro in studio, preceduto da un live) “A Place In The Queue”, offrendo un’estenuante – 80 minuti – excursus in un passato che è grato a molti; ma l’assenza di criticità, di evoluzione e rielaborazione del modello, di aggiornamento alle esigenze e allo spirito dei tempi pesa, nel giudizio finale, proprio quanto i meriti tecnici e artistici.
Un’impasse orgogliosamente rivendicata già in questi versi del primo Cd: “We Pay People To Destroy Us / In The Media Everyday / So We’ll Know Our Place And Keep It, / And Never Want To Move Away…”. Eppure, si dovrebbe muovere.