Il 4 marzo Bush è arrivato in Pakistan per la prima visita di un presidente Usa da quella di Clinton nel marzo del 2000. Ma al contrario di Clinton non è stato solo cinque ore per sfuggire all’incontro con il presidente golpista Musharraf, bensì un giorno intero, e proprio per avere la possibilità di mostrare il legame tra i due paesi e tra i due presidenti. Malgrado la visita sia stata preceduta da un’autobomba che due giorni prima a Karachi ha ucciso un diplomatico Usa, e accompagnata da forti manifestazioni di protesta per il suo arrivo. Nessun commentatore ha dedicato molto spazio a questa accoglienza: è sembrata normale. Non è forse Bush il comandante in capo della guerra al terrorismo? Non è forse Musharraf il suo alleato più forte e fedele nella regione, e l’unico garante con il suo pugno di ferro che il Pakistan non diventi di nuovo un trampolino di lancio per il fondamentalismo islamico? Tutte domande la cui risposta affermativa è scontata, e che legano politicamente il Pakistan al Medio Oriente. Dunque ne fanno un paese centrale per la politica estera Usa.
Il Medio Oriente è infatti il centro dell’iniziativa politica e militare di questa amministrazione, che dopo l’11 settembre 2001 ha elaborato una strategia di guerra al terrorismo che punta tutte le sue carte sulla creazione di equilibri più vantaggiosi per la superpotenza in questa regione. Cambiando non solo l’asse politico fino ad allora mantenuto, ma anche la filosofia di tutta la politica estera.
Per quanto riguarda l’asse politico fu decisa la decadenza del patto del Quincey, l’incrociatore Usa dove il 14 febbraio 1945 fu stretta un’alleanza tra casa regnante dei Saud e Stati Uniti, attraverso il presidente Roosevelt, nella quale i primi garantivano il petrolio e i secondi garantivano la loro permanenza al potere. Con lo sconvolgimento dei vecchi equilibri, principalmente giocando sul tavolo regionale la carta del protagonismo politico sciita e dunque con l’intervento in Iraq.
Per quanto riguarda il deciso mutamento dell’asse della politica estera, invece, sono state sviluppate tutte le conseguenze ideologiche implicite nell’interventismo manicheo reaganiano, rivestendolo di idealismo liberal e sostanziandolo con una filosofia di potenza proveniente direttamente dall’armamentario della guerra fredda, mischiata poi con una visione unilaterale della globalizzazione. E gettando alle ortiche la cara, vecchia, sicura tradizione di realpolitik kissingeriana cautamente multilaterale e cautamente imperiale propria dell’amministrazione Bush padre e del repubblicanesimo internazionalista.
Con questo baldanzoso e spavaldo programma gli Usa si sono dunque gettati come un elefante nella polverosa cristalleria mediorientale, facendo dell’esportazione della democrazia in Iraq una fase importante della guerra al terrorismo. E con ciò condannandosi a non capire più nulla di ciò che poteva succedere in Iraq, minando le possibilità di riuscita dell’operazione. Perché vengono invertite le giuste priorità di una guerra al terrorismo globale: per vincerla bisognerebbe infatti impedire gli “stati falliti” – vero brodo di coltura del terrorismo, come dimostra peraltro lo stesso Iraq – e non prendersela con gli “stati canaglia”, come era l’Iraq, che caso mai ne sono una conseguenza. Che questa strategia fosse sbagliata alla radice ora non lo dice solo la maggioranza dell’Europa ma lo si sente ripetere anche negli Usa. Per esempio da un autorevole e anziano esponente del movimento conservatore americano, William Buckley, che in un articolo sulla National Review scrive come “nessuno può dubitare che gli obiettivi americani in Iraq siano falliti”.
Il problema per Bush è però oggi ancora più difficile. Perché la ragione del declino strategico della sua presidenza – troppo lento per avere effetti positivi per le sinistre europee che si apprestano al voto, ma sicuramente un problema futuro per le destre che in Europa finora ne hanno fatto un grande punto di forza, e che saranno costrette, continuando così le cose, a riformulare il loro nesso internazionale – non è solo nell’interferenza tra l’intervento in Iraq e la guerra al terrorismo. E’ infatti lo stesso impianto della guerra globale al terrorismo che mostra difetti evidenti, come se averla intrecciata con l’esportazione forzata della democrazia – però nel solo Medio Oriente – avesse reso meno credibile e inibito questa ricetta in luoghi in cui invece poteva funzionare.
E’ il caso del Pakistan. Mentre in Iraq esportare la democrazia non ha nessun nesso con la guerra al terrore globale, anzi la danneggia perché alimenta un forte sentimento nazionalista, in Pakistan l’avrebbe. E forte. Perché il regime è parte del problema, non della soluzione. Ma proprio per questo, naturalmente, ha costruito il mito del pericolo islamico, di cui sarebbe il solo argine. Tutto ciò per l’occidente è oramai senso comune. La realtà invece è che la minaccia islamica è creata dall’esercito pakistano per preservare il proprio ruolo di arbitro nella vita nazionale.
Del resto, nulla di nuovo: l’uso della violenza settaria è un espediente usato sin dal 1947, quando nella divisione con l’India masse di poveri sunniti illetterati affluirono dal Punjab rimasto indiano in quello divenuto pakistano, alterandone l’equilibrio demografico e religioso, caratterizzato da un ceto medio di possidenti terrieri sciiti. Da allora i diseredati sunniti sono divenuti massa di manovra per la politica, cioè l’esercito: nel 1979 furono usati dal dittatore Zia Ul-Haq per paura di un contraccolpo in Pakistan della rivoluzione sciita in Iran. La regola era quella coniata dall’Isi (il potente servizio segreto pakistano) e valida ancora oggi: “l’acqua deve essere riscaldata ma non diventare troppo calda”. E quando lo diventa, la si raffredda: come il 5 ottobre 2003, quando fu assassinato Azam Tariq, il capo della più pericolosa organizzazione terroristica sunnita. E naturalmente può accadere che qualcuno non prenda più ordini, e faccia di testa sua: di qui i due attentati suicidi contro Musharraf nel dicembre del 2004. Ma il quadro è sotto controllo. L’esercito pakistano è disposto a tutto per tenere insieme lo stato fallito del Pakistan, e ci riesce dal 1947. Certo, perdendo pezzi: nel 1973 il Bangladesh, ora il rischio di una nuova rivolta nazionalista in Belucistan, regione vicina all’Iran. Il problema è che questa sua comprensibile priorità, tutta regionale, è divenuta una priorità anche dell’occidente e degli Usa. Che così rischiano non solo di sostenere un regime antidemocratico, ma anche di far deragliare la guerra al terrorismo lì dove aveva l’accordo di tutti: in Afghanistan, dove non si può vincere proprio perché “l’acqua deve essere sempre calda”. Anche perché il rinnovato protagonismo sciita nel vicino Medio Oriente inquieta i generali come nel 1979 inquietò Zia Ul Haq. E infatti in Afghanistan le cose vanno male: dal 2005 i caduti Usa e internazionali crescono invece di scendere. Ma non si dice. Perché se si sollevano i veli e si comincia a discutere, si potrebbe finire per capire che in Medio Oriente non è possibile esportare una democrazia con le armi della potenza regolatrice facendo leva su quella che rimane comunque una minoranza (gli sciiti), perché gli stati non sono falliti, ma semmai stati canaglia, mentre in Pakistan è l’opposto. Qui è proprio il regime a sponsorizzare – per ragioni nazionali – un equilibrio che si fonda sul terrore. L’unico possibile in uno stato fallito. Dove proprio la democrazia sarebbe l’antidoto più efficace, per la sicurezza del mondo e per la creazione di un Pakistan finalmente sostenibile.