La Presidenza Bush è sempre più in difficoltà, anche per aver fatto l’apprendista stregone in una regione come il Medio Oriente, dove non mancano certo fantasmi e spiriti maligni. L’anno, da questo punto di vista, è iniziato malissimo: la guerra civile in Iraq – dopo la distruzione della moschea d’oro di Samarra – è oramai aperta e senza controllo; il governo iracheno dopo mesi non riesce a vedere la luce; dove si vota vincono i partiti dell’Islam politico radicale; nel Golfo Persico il ricambio politico è bloccato, mentre l’Iran si rafforza e detta l’agenda anche sul nucleare; l’infezione e il sabba della rivolta ha iniziato a contagiare – partendo dalla Libia – il nordafrica finora immune; in Afghanistan i morti Usa hanno ripreso a crescere. Il tutto suggellato da un disastroso viaggio di Bush in India e in Pakistan. Disastroso non perché condotto male, ma perché ha dovuto certificare una diminuzione dell’influenza Usa nel Medio Oriente e nella contigua Asia. In India, infatti, Bush ha dovuto forzosamente sorridere, per intascare almeno qualche accordo economico, quando gli è stato annunciato che il gasdotto diretto dall’Iran – a cui si era opposto – si sarebbe fatto lo stesso. In Pakistan, poi, Bush non solo è stato preceduto da un’autobomba che ha ucciso un diplomatico americano, ma ha dovuto piegarsi al ricatto di Musharraf per essere lui l’unico referente – perfino con photo opportunity insieme al Presidente – della guerra al terrorismo in Pakistan e Afghanistan, quando in realtà il suo regime costituisce non solo la causa prima della forza dell’Islam radicale nell’area, ma anche una solenne contraddizione nel programma di esportazione della democrazia. Un programma che rappresenta – purtroppo solo in Medio Oriente, dove però è inviso perché importato dalla potenza occupante – il centro propulsore della guerra al terrorismo globale.
Così giovedì 9 marzo a qualche analista è parso curioso che il Presidente Bush trovasse il tempo per una lunga intervista alla televisione libanese “Futuro” sulla situazione del piccolo Libano, dove chiedeva ai libanesi di “essere coraggiosi” e di strappare il loro paese dalla rimanente influenza siriana. In realtà si tratta di un segnale meditato, come tutte le dichiarazioni e gli atti di un presidente americano. A suo modo potrebbe essere il segnale di un doloroso riconoscimento delle difficoltà attuali nel programma di esportazione della democrazia, finora baldanzosamente centrato sull’Iraq, e insieme il tardivo segno di un possibile e parziale cambio di strategia. Una sorta di passo indietro. Perché si riparte dal paese più piccolo. E perché tale sforzo punta adesso più che su avventure militari sulle forze interne e su dinamiche politiche: mentre infatti Bush parlava alla tv “Futuro”, il capo druso Walid Jumblatt – ospite a Washington dell’Amministrazione Usa – era a colloquio con Condoleezza Rice per concordare una strategia utile a destituire il presidente prosiriano del Libano Emile Lahud. In una successiva conferenza Jumblatt dichiarava così che “se gli Usa falliscono in Libano, la loro intera credibilità di promozione della democrazia […] sarà un grande fallimento”.
Un anno dopo l’assassinio di Rafiq Hariri il 14 febbraio e la marcia l’8 marzo di un milione di sciiti di Hizballah, a cui seguì pochi giorni dopo quella altrettanto numerosa di drusi, sunniti e cristiani per il distacco dalla Siria, ogni concreta possibilità di mettere in moto processi virtuosi in Medio Oriente riparte dal Libano. In un certo senso una mossa abile, che mostra una concretezza maggiore rispetto al “grande disegno” iracheno: dovesse la rivolta contro l’interferenza siriana avere successo ciò potrebbe giustificare in qualche modo l’utilità della disastrosa guerra in Iraq. Ma proprio qui sta il punto: non è tutto oro quel che luccica. Perché anche in questo caso gli Usa corrono rischi non visibili a uno sguardo frettoloso. La destituzione di Lahud aiuterebbe certo il cambio di regime a Damasco. Solo che crea il rischio, se non accompagnata da un coerente, complementare e impegnativo sforzo per democratizzare il Libano, di una nuova guerra civile nel paese.
A un anno dalla cosiddetta “Primavera dei Cedri” il Libano non ha certo fatto progressi da questo punto di vista, anche perché si trattava di una rivolta nazionalista e non democratica. La scorsa primavera fu del resto chiamata “l’Intifada per l’indipendenza”, non “l’Intifada per la democrazia”. E non ha mutato l’ossificato carattere confessionale del sistema politico libanese, che ne è anzi uscito rafforzato. Il sistema politico libanese è infatti disegnato per dare rappresentanza a tutte le diciassette diverse confessioni religiose presenti nel paese, ma non ai cittadini in quanto tali. E questo sulla base del censimento fatto nel 1932. Dopo il Patto Nazionale del 1943 il sistema ha funzionato bene per tre decenni, ma si è inceppato – con una terribile guerra civile – nel 1975, quando gli equilibri codificati erano divenuti troppo lontani dalla realtà. Con gli accordi di Ta’if del 1989, che posero fine alla guerra civile, la Siria acquista il ruolo di arbitro del potere. Un ruolo che i libanesi non riescono più a esercitare da soli, come si è visto dall’impasse seguito al ritiro dell’esercito siriano nel maggio scorso. L’ostacolo è rappresentato dal rigido sistema confessionale, che codifica gli eletti in Parlamento e la distribuzione delle cariche dello Stato, secondo pesi e contrappesi che risalgono al 1932.
Far saltare il presidente Lahud, da questo punto di vista, è rivoluzionario: sarebbe la prima volta che i maroniti lavorano per cacciare un loro esponente. Ma dopo chi garantirebbe le fazioni e le confessioni che gli equilibri di potere saranno comunque informalmente contrattati giorno per giorno? E se il ruolo della Siria non può essere restituito a un sistema democratico che ancora non c’è, certo esso non può essere preso dagli Usa. Perché è proprio ciò che gli sciiti e Hizballah non vogliono. Gli sciiti infatti oggi non hanno una rappresentanza politica remotamente commensurabile al loro numero, più che raddoppiato dal 1932. Però hanno una milizia. Quella milizia che gli Usa, secondo la risoluzione 1559, vorrebbero disarmare. Ma è improbabile che Hizballah accetti di essere disarmato se non verrà riconosciuto in qualche altro modo il peso odierno degli sciiti, come faceva la vicina Siria. Una cosa che si potrebbe fare in un sistema democratico, se ci fosse. Che certo non lascerebbe ad Hizballah, in rappresentanza di più del 40% di sciiti, appena un solo ministro nel governo e nessuna altra carica istituzionale. Facendo finta che la priorità sia la cacciata di Lahud, gli Usa dunque sposano l’agenda istituzionale antisiriana di Jumblatt. E forse ne trarranno giovamento dal punto di vista simbolico dell’intervento in Iraq. Intervento che del resto Jumblatt un anno fa dichiarò di apprezzare. Ma il prezzo di questo momentaneo respiro e prestigio potrebbe essere il ritorno di Beirut ai fasti mortali della guerra civile. Questa volta tutta interna alla comunità mussulmana. Rischiando di aggiungere ancor di più benzina, in definitiva, a quell’incendio che sta sconvolgendo il vicino Iraq e mobilitando il non troppo lontano Iran. ■