Tra i vincitori dei Premi Pulitzer assegnati ieri c’è Ken Armstrong (giornalista investigativo, al quarto Pulitzer) per un pezzo pubblicato su The Marshall Project, un progetto non profit sulla giustizia penale americana – ispirato al grande Thurgood Marshall, avvocato dei diritti civili e giudice costituzionale – che cerca di «creare e sostenere un senso di emergenza nazionale circa il sistema penale», per combatterne gli abusi e ricondurlo al rispetto pieno dei diritti dei cittadini. Anche in Italia esiste questo senso di emergenza nazionale per il sistema penale, e lo ritroviamo quotidianamente on-line, sui giornali e in televisione, solo che si manifesta sempre in direzione opposta, in un lamento continuo sull’insufficienza degli strumenti repressivi e la eccessiva mitezza delle pene.
Sono passati pochi giorni dal caso di Doina Matei, la giovane rumena condannata per l’omicidio preterintenzionale di Vanessa Russo, a cui è stata sospesa la semilibertà per la pubblicazione di alcune fotografie su un profilo Facebook e la sollevazione popolare che ne è seguita, e in un altrove non solo fisicamente separato dalla società – il carcere di Rebibbia – vengono presentati i risultati di una delle più interessanti iniziative politiche prese da un ministro della Giustizia negli ultimi anni: gli stati generali dell’esecuzione penale.
La condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo per il sovraffollamento carcerario e lo stato drammatico delle carceri aveva costretto il governo italiano a un lavoro eccezionale per rimediare a una situazione inconcepibile per un paese democratico. Ma quella condanna ci aveva anche costretti a sollevare la pietra che avevamo messo per troppo tempo sulle quotidiane violazioni dei diritti umani nelle patrie galere. Alla dimensione strutturale di questa inadeguatezza si è affiancata nel tempo una dimensione quasi esclusivamente irrazionale, un’insicurezza sociale che vede nella punizione del colpevole con il carcere l’unica speranza di restaurazione della propria tranquillità, in questa forma di democrazia emotiva in cui ci stiamo trasformando. Si è capito che il problema non è solo legislativo, ma anche e soprattutto culturale: la pena ha una quota afflittiva a cui l’opinione pubblica non è disposta a rinunciare – e ciò è ragionevole, persino giusto – ma è anche l’unica parte di cui vuole sentire parlare.
Gli stati generali dell’esecuzione penale sono stati indetti per superare questo arrocco: diciotto tavoli tematici, dall’architettura carceraria ai minori, dall’affettività alla religione, il reinserimento, il disagio psichico e la giustizia riparativa; duecento partecipanti tra magistrati, avvocati, docenti, esperti, rappresentanti della cultura e dell’associazionismo civile che si sono confrontati per un anno su ogni aspetto rilevante del carcere e della dimensione dell’esecuzione della pena. Si è raccolta una mole impressionante di dati e documenti, sono stati sentiti esperti, sono state visitate carceri italiane e straniere. Ogni tavolo ha poi elaborato una relazione conclusiva, sottoponendo le proposte a un dibattito pubblico e le relazioni sono oggi pubblicate integralmente sul sito del ministero.
Le carceri italiane hanno dovuto sopportare per decenni l’eredità di un regime autoritario e solo nel 1975, con il nuovo ordinamento penitenziario che sostituiva il regolamento carcerario fascista del 1931, si è iniziato a scrostare l’eredità di una simile concezione. Lo ha ricordato lo stesso ministro Orlando, citando Filippo Turati, che denunciava il carcere come «cimitero dei vivi», perché «non è scritto in alcun libro del destino che le nostre carceri debbano essere dei semenzai di criminalità». Gli stati generali – si legge nel documento conclusivo – hanno l’ambizione di una svolta radicale: dal carcere percepito come la soluzione per tutti i problemi, e per tutte le paure sociali, al carcere come problema sociale. E questo non perché siamo brava gente, ma perché l’orientamento degli stati moderni è quello di privilegiare – tranne là dove non si possa farne a meno – l’esecuzione della pena nell’ambito della comunità, ricorrendo il meno possibile al carcere, «an expensive way of making bad people worse».
I dati sono impressionanti. Il carcere costa ogni anno quasi tre miliardi di euro ma genera tassi di recidiva tra i più alti in Europa. I detenuti che escono dal carcere per poi rientrarvi sono circa il 56%. Ma la prova matematica del fallimento è rafforzata da un altro dato, quello secondo cui la recidiva precipita al 20% nei casi in cui viene concessa una misura alternativa.
Le proposte avanzate dagli stati generali sono radicali, e lo sembrano ancora di più proprio in questi giorni in cui l’opinione pubblica ha rivendicato la pretesa di un ruolo nel giudicare l’esecuzione della pena: l’emotività dell’opinione pubblica si è fatta parametro della rieducazione del condannato, in forza dell’assolutezza dei sentimenti e non della relatività condivisa delle leggi. Gli stati generali dell’esecuzione penale somigliano a un grande progetto di evasione collettiva dalla soffocante idea che il carcere, la galera, le manette, siano la soluzione a ogni insicurezza sociale. La sensazione – la speranza – è che il ministro della Giustizia abbia scelto di dichiarare una guerra politica e culturale e questo sia il punto di non ritorno, il momento in cui la politica sceglie di assumersi la responsabilità di andare controcorrente. Ha concluso il suo intervento citando Lucio Dalla e La casa in riva al mare, non per usare retorica ed emotività contro quella stessa irrazionalità contro cui si intende combattere, ma solo perché è una bellissima canzone, che parla di un detenuto e del suo diritto a non consumare la vita lontano da qualunque affetto, da qualunque speranza di riscatto.