Ogni volta che nel dibattito pubblico si solleva una questione legata al rispetto dei diritti di categorie invise al conformismo dell’opinione pubblica (migranti, imputati, detenuti, vittime delle violenze della polizia), il contrappunto alla voragine populista è rappresentato spesso dalla voce autorevole di Luigi Manconi, e dalla galassia di persone e associazioni attorno alle quali gravita (A buon diritto, Antigone, solo per citarne alcune). Sono pochi e sparuti, come villaggi berberi dispersi nel deserto, ai quali però si guarda come agli ultimi avamposti di civiltà.
«Politicamente io mi definirei un radicale di sinistra estrema, tuttavia sempre interessato a trattare le questioni intrattabili e, se possibile, a governarle», diceva in un’intervista di qualche anno fa. Indubbiamente il governo delle questioni intrattabili è la cifra della politica di Manconi, oggi raccontata in un libro-intervista (curato da Christian Raimo e uscito per minimum fax) che nasce come forma di rivendicazione della sua azione, «fare politica muovendo dal dolore e dalla forza delle persone e tradurre tutto questo in mobilitazione collettiva». Cosa c’è di più politico del battersi per un riconoscimento universale dei diritti negati? È una politica «parziale», «circoscritta», ma misurabile. Corpo e anima, musica e parole.
Luigi Manconi ripercorre la sua biografia sincopata: la gioventù all’Asinara, gli studi in Cattolica a Milano, da cui sarà espulso, la militanza in Lotta Continua e poi i Verdi, fino alla sua attuale collocazione nel Partito democratico e il suo ruolo di presidente della Commissione diritti umani del Senato. È il racconto di una storia di formazione eccezionale, accompagnata da fratelli maggiori e minori, come Adriano Sofri, Alexander Langer, Goffredo Fofi, senza il compiacimento e il reducismo che si ritrovano spesso in chi ha vissuto quegli anni; ma è anche una storia sofferta, attraversata dall’«ala nera del lutto» e dalle sconfitte. Sullo sfondo la musica leggera e il ruolo della musica nella storia sentimentale e politica del nostro paese.
Le battaglie per i diritti civili in Italia sono spesso considerate accessorie alla politica delle riforme istituzionali, delle leggi elettorali e dei conti della serva. Cosa spinge un politico a ostinarsi in battaglie impopolari, verso le quali l’opinione pubblica è spesso indifferente, talvolta insofferente? La lotta per i diritti non è filantropia – questo Manconi ci tiene a precisarlo – ma una forma di «altruismo interessato»: tutelare la dignità degli altri assieme alla mia, perché «sento in loro offesa la mia umanità», dice, facendo propria una citazione di Ernesto Rossi. Manconi rifiuta l’identificazione che non concede spazio alla razionalità critica, e affronta dialetticamente ogni questione, considerando ogni punto di vista ma smontando gli espedienti retorici della discussione, come le accuse di «buonismo». La sua politica dei diritti non è moralista e dogmatica, ma critica e riflessiva. Il discorso pubblico di Manconi gravita attorno al corpo e alle lotte per i diritti che al corpo concedono sollievo. Sono le storie di Stefano Cucchi, Giuseppe Uva, Federico Aldrovandi e degli abusi delle forze dell’ordine; dei corpi negletti dei migranti, dei corpi annullati dei detenuti e di quelli immobilizzati dalla contenzione, e di come sia possibile, attraverso il loro racconto, affrontare temi universali e complessi. E tutto questo è politica: «Trovare il fondamento della propria azione nella concreta e materiale condizione dei più vulnerabili».
Per chi come me è nato negli anni settanta, il libro di Manconi è anche la narrazione dei tempi e dei luoghi in cui le coscienze politiche si sono formate e delle riflessioni sui diritti, sulla politica e sulla giustizia che hanno segnato il passaggio dal paradigma della violenza rivoluzionaria alla non violenza, e di lì al garantismo e alla tutela dei diritti, un passaggio – racconta – segnato da traumi collettivi come l’assassinio di Aldo Moro o il processo del 7 aprile. «Il garantismo è un’impresa ardua, al limite della spericolatezza e di una solitudine che può precipitare nell’eremitaggio politico». La lotta per il riconoscimento di garanzie universali, in una società giudiziaria avvitata attorno al binomio legalità-repressione, e in cui le tensioni sociali cercano soluzioni nel diritto penale e nella punizione, è impari e trova resistenze trasversali. A questo ha contribuito un uso distorto del garantismo, ma è facile stanare le posizioni opportuniste: i diritti non sono divisibili e il garantismo pretende gli stessi diritti per tutti, a prescindere dalle categorie sociali, penali, economiche. Il dibattito sui diritti – dice Manconi – negli ultimi due decenni si è appiattito esclusivamente sul concetto di «legalità», ma una legalità interpretata come sudditanza assoluta alla regola e alla legge. Non si esce vivi dagli anni novanta, insomma.
In questo panorama desolato, il libro di Manconi restituisce la complessità della politica e riafferma il suo dovere di affrontare le questioni cruciali della modernità: le migrazioni, il fine-vita, le adozioni omosessuali, la fecondazione assistita, e lo fa anche con una nota amara di solitudine. Insieme a Corpo e Anima, ho iniziato un bellissimo libro di Emily St. John Mandel: Stazione Undici. In un futuro prossimo la popolazione mondiale è stata quasi interamente sterminata da un’influenza, un gruppo di musicisti e attori si aggira per questo deserto distopico, ostile e ignoto, alla ricerca degli ultimi nuclei abitati, per mantenere vivo ciò che resta dell’arte e dell’umanità mettendo in scena le commedie di Shakespeare. Leggendolo, non ho potuto non associare l’Orchestra Sinfonica Itinerante – questo è il nome della compagnia teatrale – alle battaglie politiche di Manconi e di associazioni come Antigone, che non recitano Shakespeare, ma che in un paesaggio spesso sconfortante per le battaglie sui diritti hanno scelto di ostinarsi a fare politica.