In principio fu la città. Da sempre la vita dell’uomo è stata regolata in questa istituzione, principio del vivere associato e base stessa dell’essere in comune. La nostra cultura trae origine dalla città fino a identificarsi con essa. La città comprende l’uomo, la città è l’uomo – come ci ha insegnato una volta per tutte Aristotele. Certo, poi non sempre all’uomo è dato riconoscersi nella città. Anzi. Nel tempo questa ha cambiato volto. La modernità ne ha trasformato la topografia, ridisegnato le forme, ribaltato gli ordini che la governavano. Eppure è sempre rimasta e rimane la casa dell’uomo.
Proprio perché è uno dei volti dell’uomo, della sua storia, del modo in cui è e si rappresenta, la città ci dice molto dell’uomo stesso, di colui cioè che ha costruito quel tessuto urbano. Per questo esiste una lunga tradizione di filosofi impegnati a interrogarsi sull’organizzazione dello spazio, sulla città e sulla storia della sua fondazione, trasformazione, scomparsa. Equivale alla ricerca del senso della vita, delle comunità o, come le chiamava Hegel, delle cose – ovvero il meglio di ciò che va sotto il nome di filosofia. Non a caso le “letture” della città si sono moltiplicate, soprattutto dalla fine dell’Ottocento e poi per tutto il Novecento. Nomi illustri, fra scrittori e filosofi, che si sono messi all’ascolto del rumore del tempo che le città producono. La modernità sembra trovare, intorno al 1900, il suo laboratorio preferito in questo immenso repertorio di segni, immagini e sogni rappresentato dalla città.
Un sapere che sta lì, sotto gli occhi di tutti, a disposizione di chi vuol guardarlo e comprenderlo. Ecco allora che la massa uniforme e l’uomo senza qualità se ne vanno a spasso, a braccetto, lungo le vie di Vienna – strade al cospetto delle quali s’annusano i fasti d’un passato imperiale ormai decaduto. Altrove c’è la fantasmagoria di Parigi, capitale del xix secolo, la cui fisionomia è cantata dal poeta, cercata all’interno dei suoi passages o fra gli stracci del cenciaiolo, quest’essere misterioso che vive delle deiezioni della metropoli e per questo possiede il tesoro di ciò che la città ha scartato. Infine c’è la “piccola mamma”, come i boemi chiamano Praga, questa città che per lo scrittore diventa una “mammina con gli artigli”, uno spazio dove si combatte la dialettica fra l’incanto del luogo magico e l’alienazione del demoniaco da cui fuggire. Metropoli che presentano i loro elementi, strade come oggetti smarriti, veicoli d’esperienza fra cui perdersi e luoghi di sosta a cui abbeverarsi del genio della città. Porosità da cui mimare capacità osmotiche. Perciò ognuna di queste città si riempie di geroglifici sociali da decifrare, enigmi da risolvere, caratteri da scrivere. E a dismettere i panni solenni del saggio eremita per indossare quelli profani del detective, ecco incontrare lungo le strade in cerca di indizi persone che si chiamano Robert Musil, Walter Benjamin, Baudelaire, Proust, Kafka, Kracauer, Simmel, Bloch, Kraus, fra gli altri.
E a guardarla bene la città ci appare ambigua, ben diversa da come i “bellissimi miti” (ancora Aristotele) ce l’hanno raccontata. Non è soltanto il luogo dell’armonia, del riparo. È anche il luogo della paura. E per quanto si vogliano elaborare riflessioni in grado di consolarci, di esorcizzare questa paura e perciò scacciarla il più lontano possibile, ce la ritroviamo sempre a gravare su di noi. Culliamo la speranza di lasciarla fuori dalle porte della città, fuori dalla porta di casa. Ma poi scopriamo che trova sempre un modo di entrare. Dal momento in cui gli uomini hanno iniziato a costruire case e città sono stati pensati modelli ai quali rifarsi. E ognuno di questi ha tentato di disfarsi della paura, di smontarne i meccanismi, di tenerla fuori. Senza riuscirci: la città è sempre stata una matassa indistinta e confusa di paure, un vero e proprio fantasma che insegue l’uomo nella sua tana.
Abbiamo costruito mura, alte e possenti. Ai giorni nostri abbiamo moltiplicato le videocamere per la nostra sicurezza. Non serve a nulla. Continuiamo ad aver paura. Il nemico spaventoso non siede più sotto le nostre mura per assediarle. Fra fuori e dentro non c’è più una linea marcata, netta, distinguibile. L’indeterminatezza regna, il nemico è alle porte o chissà dove, insidioso, e forse è già entrato e si annida fra di noi, nella città, il luogo dove l’indicibile è la possibilità che non si distingua più il fuori dal dentro. Questo significherebbe la perdita del confine, del limes, e quindi la dissolvenza dell’altro: anche la paura non sa più a chi rivolgersi, ha perso il suo oggetto, non si rappresenta più e perciò s’è trasformata in angoscia. Ecco dunque la città assediata: ma non più da fuori, bensì da dentro. Come scriveva Elias Canetti nel suo Massa e potere, ogni massa è sempre una sorta di “fortezza assediata” perché il nemico, oltre ad avercelo davanti, sotto e tutto intorno le mura, ce l’ha anche “in cantina”. E questo tipo di aggressione, dall’interno, è molto più pericolosa di quella dall’esterno. Il nemico che giunge da fuori per combattere la città, la massa che la popola, in definitiva rafforza il senso civico, accomuna e non divide, la rende più forte. Quella dall’interno è invece un virus che man mano si inocula e sbriciola la compattezza della massa, la corrode, lentamente, finché non la distrugge del tutto se non viene fermata. Questo perché, scrive ancora Canetti, l’aggressione dall’interno «si appella a voglie individuali», è considerata un ricatto, un’azione immorale. Fondamentalmente perché è lo specchio di ognuno: «Chiunque appartiene a tale massa porta in sé un piccolo traditore, che vuole mangiare, bere, amare e starsene tranquillo. Fin quando adempie a queste funzioni tra parentesi e non ne fa troppo chiasso non glielo impedisce. Ma da quando il suo comportamento diviene troppo palese, si comincia ad odiarlo e a temerlo. Si sa che egli ha subito le tentazioni del nemico» (Massa e potere).
Il nemico in cantina fa più paura di quello che minaccia dall’esterno delle mura. Perché è più subdolo, è nascosto, non si vede, mentre quello che viene da fuori è chiaro e preciso. È il nemico che non si vede e che alimenta il sospetto, il senso di persecuzione, a essere una minaccia per la città perché rimette in causa le sue strutture e architetture. La città e la massa che la abita può perciò esser pensata, sempre con Canetti, come una fortezza assediata in tre diversi sensi. Le alte mura sono state costruite per difendere la città dal nemico. Oppure, seconda opzione, esse difendono il nemico, le ha costruite lui per impedire alla massa della città di espandere e crescere. Terza prospettiva: le mura difendono il traditore insidioso e familiare, la fortezza è ora assediata dall’interno, e le cantine si riempiono di traditori.
Ecco perciò il vero volto della paura cittadina. Quella del focolare, della cantina, del nemico invisibile. Proprio come la peste. Qualcosa che non ha volto, non ha forma né corpo. Qualcosa che è lì, in incognito, pronta a seminare morte e terrore. Non conosce freni, non è possibile contenerla: i suoi miasmi non temono alcun muro, non si fermano di fronte a nessuna barriera. Non si possono scagliare frecce per colpirla. La peste è un destino. Ha qualcosa di fatale, proprio come la paura, ed è qualcosa che si mostra sempre in una dimensione di trascendenza. La peste è il più terribile dei nemici della città perché è un enigma. È fuori dalle logiche e dall’ordine naturale delle cose. Per questo ha generato un immaginario che accompagna la storia dell’uomo ed è stata pensata nel tempo in termini di destino e di colpa. Non solo: la peste ci dice molto di più di quanto pensiamo. Come ci ha insegnato Camus, la peste è smisurata misura: la città non riconosce più limiti, non regge la paura. È la morte che entra, o meglio ritorna, fra le pietre e fra le mura. Nelle cantine. È la Tebe descritta da Sofocle nel suo Edipo re, una città in preda al panico. La peste porta a fondo tutto e tutti, è una furia devastatrice che azzera la realtà e avvia la caccia all’untore: non è una guerra, dove il nemico è chiaro, dove la violenza e la morte sono indirizzate, dove la logica è ordinata. Ognuno non è più il nemico di nessun altro, ma la sua peste. Ognuno è la peste di chiunque. E serve a poco il paradigma della sicurezza e del controllo, che sta modificando le nostre città e i territori contemporanei. Sempre più i luoghi della nostra vita associata si trasformano in “arcipelaghi ed enclavi”, isole sicure nelle quali il controllo e l’ordine rigoroso garantiscono l’armonia. Come? Tenendo fuori la paura (la peste, il nemico, lo straniero…). Con leggi e mura. Con uno stato d’eccezione. Si creano “città-fortezza” per benestanti, una sorta di apartheid urbano entro il quale lo spazio è messo in sicurezza con il monitoraggio, guardie, alti muri e blindature. Sono luoghi dove non c’è paura. Apparentemente. Perché è soltanto una fantasia, l’illusione di una raggiunta incolumità dal terrore, un riparo sicuro che sicuro non è. Eppure sarebbe così semplice capire che quella della città ideale non è altro che un’immagine. La paura c’è sempre stata, esiste da sempre, pervade il nostro mondo da quando esiste l’uomo. La paura ha attraversato tutta la nostra storia: paura dell’altro, della malattia, della carestia, del nemico, dell’infedele, del vicino, del lontano. Paura di sé stessi. La sicurezza è sempre stata anche una retorica. La paura, come la lebbra e la peste e il colera, hanno sempre portato con sé specifiche domande politiche di esclusione. Ovvero la ricerca e l’allontanamento dell’untore, quando non la sua eliminazione. Un colpevole, l’altro, lo straniero, colui che viene da lontano portando con sé il germe del male. Un capro espiatorio, una vittima. Che come ogni vittima innesca quel circolo vizioso di ogni omicidio rituale, come l’ha postulato René Girard: si uccide la vittima perché essa è sacra… ma la vittima non sarebbe sacra se non la si uccidesse.
Insomma, la città, sia essa immaginaria, antica o moderna, ha nella paura un dispositivo del suo funzionamento e della sua realizzazione. È sempre stato così e sempre sarà. L’uomo ha paura. Ha paura della propria paura. E non può farci nulla. Se non farci i conti, lavorarci, per rendere questa paura sempre più umana.