Tre anni fa, nella notte tra il 19 e il 20 marzo, la coalizione guidata dagli Stati Uniti invadeva l’Iraq di Saddam Hussein, spaccando a metà tra favorevoli e contrari l’amplissima coalizione internazionale che subito dopo l’11 settembre 2001 aveva guidato l’intervento in Afghanistan e suscitando in tutto il mondo – meno che negli Usa – proteste popolari di una tale ampiezza da far scrivere al New York Times che era scesa in campo l’altra vera superpotenza superstite: quella dell’opinione pubblica mondiale. L’intervento in Iraq è stato insomma talmente controverso e talmente significativo da porsi accanto, e forse sopravanzare, l’11 settembre 2001 come evento periodizzante dell’inizio di un mondo globale postmoderno e postwestfaliano. E’ dunque opportuno, dopo tre anni, abbozzare un primo bilancio.
Dal punto di vista militare il bilancio è contenuto in poche crude e durissime cifre: dalla fine ufficiale delle ostilità – proclamata da Bush con il celebre discorso del 1 maggio 2003 sulla portaerei Usa Abraham Lincoln, da dove pendeva un altrettanto famoso striscione con la scritta “missione compiuta” – al 16 marzo 2006 sono morti in Iraq 4306 soldati e poliziotti iracheni, 2314 soldati Usa, 206 soldati non anglosassoni della coalizione (tra cui i nostri morti di Nassiriya) e 103 soldati britannici; i civili iracheni morti per effetto di atti di guerra sono stati tra i 33.600 e i 37.800 per Iraq Body Count e 21.217 secondo l’Iraq Index; per quanto riguarda i soldati feriti non esistono stime per quelli di nazionalità irachena, ma sono stati 17.124 quelli dell’esercito Usa; finora inoltre sono morti 311 civili non iracheni impegnati nella ricostruzione insieme a 61 giornalisti; gli atti di guerriglia sono passati dai 24.496 del 2004 ai 34.131 del 2005; ogni giorno nel 2005 sono stati rapiti 30 iracheni (20 nel 2004), mentre sono stati in totale 280 i civili civili che hanno subito la stessa sorte.
Meno brutale – ma non meno grave – è invece il bilancio politico, che del resto da quello militare discende direttamente. La prima considerazione da fare è proprio sulla lunghezza del conflitto: una guerra che doveva chiudersi in tre mesi dura invece da tre anni. La seconda considerazione, conseguenza della prima, riguarda la sua virulenza. Occorre dire che nessuno, nemmeno tra i più pessimisti, poteva immaginare che la situazione di oggi sarebbe stata così terribile: perché non solo l’intervento in Iraq ha scoperchiato – come preconizzavano in molti – il vaso di Pandora della “Yugoslavia araba”, ma ha anche in modo imprevisto riattizzato una più ampia guerra civile all’interno dell’Islam che fino ad allora era rimasta sotto traccia e fuori dal cuore della regione, e che invece adesso riprende forza grazie all’incendio iracheno, intrecciandosi e crescendo con esso.
Prima dell’intervento in Iraq il terrorismo globale aveva tentato – innanzi tutto con l’11 settembre – di scatenare una guerra di civiltà per accreditarsi tra le masse islamiche quale integrale difensore della vera fede, rispetto alle elite arabe corrotte e asservite all’occidente. La linea di frattura correva dunque tra popolo e regimi. Una linea che però, nonostante la debolezza della tradizione statuale in Medio Oriente, i terroristi globali non erano riusciti ad allargare più di tanto. L’intervento Usa in Iraq – che ha da subito puntato sugli sciiti per scompaginare equilibri non più graditi – ha offerto al terrorismo globale un’opportunità unica: quella di giocare anche sulla frattura tra sunniti e sciiti. Le linee di faglia sono così diventate due: tra sunniti e sciiti da un lato, tra popolo e regimi dall’altro. Dove sciiti e popolo coincidono, come in Iraq, il terremoto è stato dirompente.
Un terremoto talmente dirompente da spazzare via ogni possibile capacità di mediazione degli Usa e di una ricostruzione politica da loro guidata. Dopo le elezioni del 15 dicembre 2005 il parlamento si è riunito per la prima volta solo il 16 marzo, e senza trovare un accordo per il nuovo premier e dunque per il nuovo governo. Gli sciiti insistono per Ibrahim Jaafari, nonostante gli Usa disperati implorino loro di cambiare candidato, inviso ai sunniti, mentre i curdi spingono per Talabani. Nel frattempo, dopo la distruzione della moschea d’oro di Samarra il 22 febbraio 2006, la guerra civile divampa senza controllo. E come per la Yugoslavia, quando un paese si spezza, a pagare il conto politico è la potenza regionale: nel caso yugoslavo fu l’Unione Europea, nel caso iracheno saranno gli Usa. E gli Usa hanno già cominciato: proprio giovedì scorso si sono piegati ad accettare umilianti colloqui diretti con l’Iran, la nuova potenza regionale emergente, su come far cessare la guerra civile in Iraq. Altro che Iran nuovo paria della comunità internazionale per il suo programma nucleare: i colloqui per stabilizzare l’Iraq si svolgeranno a Baghdad, con l’Iran che si premura di far sapere come il suo ruolo potrebbe alternativamente essere utile come lo fu dopo l’11 settembre – quando Usa e Iran si incontrarono in Svizzera per coordinare la loro lotta ad Al-Qa’ida e ai Talebani – oppure d’ostacolo, magari solo astenendosi dall’esercitare pressioni costruttive sui vari e concorrenziali leader sciiti iracheni.
Come si vede, si tratta di un mutamento nella bilancia del potere. Dopo tre anni di Iraq, l’Unione Europea è sparita dalla scena, l’Iran è più forte, gli Usa più deboli. Nel suo ultimo viaggio in India e in Pakistan, Bush è stato accolto dalla contestuale firma tra India e Iran per un gasdotto diretto tra i due paesi a cui il presidente americano si era opposto, e da vignette irridenti le correnti difficoltà: in particolare una in un quotidiano di New Delhi dove era raffigurato un enorme coccodrillo con la scritta “insurrezione” le cui mascelle erano tenute aperte con grande difficoltà da un disperato soldato Usa, che implorava un nanetto con la scritta “truppe irachene” di diventare grande “presto” per sostituirlo. E tanto rilevante è stato il mutamento sfavorevole per gli Usa nell’equilibrio internazionale di potenza innescato dal tragico errore iracheno da cominciare ad avere forti riflessi politici interni. Perché ciò che aveva costituito un grande capitale politico per le presidenziali del 2004, si potrebbe rivelare un pesante fardello per le legislative del prossimo novembre. Probabilmente Bush pagherà comunque l’avventura neocon in Iraq con il fallimento storico della sua presidenza. Ma adesso bisogna vedere quanto questo coinvolgerà non solo la sua parte politica, ma tutto il paese. E il pericolo paradossalmente oggi è proprio questo: che la situazione in Iraq peggiori tanto da farne materia prevalentemente di politica interna, creando una “sindrome irachena” che non solo potrebbe far decidere di abbandonare al suo destino un paese in fiamme alle porte d’Europa, ma anche far virare la politica estera Usa di nuovo verso il tradizionale isolazionismo repubblicano. Quello dell’inizio della Presidenza Bush, che tanto aveva spaventato il mondo: già Bruce Bartlett, ex consigliere di Reagan, ha accusato Bush in un libro di aver tradito il reaganismo. Ogni guerra perduta spinge all’isolamento, e l’Iraq in questo è assai simile al Vietnam: fu anche in conseguenza di quella sconfitta che gli Usa decisero la rottura dell’ordine di Bretton Woods nato nel 1945. Prima che questo esito diventi ineluttabile, la comunità internazionale – e in primo luogo l’Europa – dovrebbe allora fare un passo in avanti, e proporre un intervento di peacekeeping e insieme peacemaking, militare e politico, per l’Iraq. E’ troppo tardi per lavarsene le mani e lasciarlo solo agli Usa. Ma non per un intervento multilaterale consapevole della posta in gioco, che tra l’altro potrebbe aprire anche nuovi spazi alla sinistra mondiale. Perché se gli Usa vengono lasciati soli davanti alla loro punizione, è probabile non solo che la sindrome irachena li spinga di nuovo verso l’isolazionismo e il protezionismo, ma anche che in questo contesto postmoderno e postwestfaliano ciò diventi una tendenza mondiale più generale. Svuotando le già malridotte sedi multilaterali. E lasciando un mondo in fiamme, mentre il corpo dei pompieri se ne resta sdegnosamente in sciopero.