A un mese dal voto, la campagna referendaria ha già ampiamente dimostrato che ci sono molti modi di dire no. C’è il no di una sinistra e di un certo mondo di intellettuali radicali (non necessariamente di sinistra) che nei fatti, al di là delle formule di rito, si sono sempre opposti all’idea che una qualsivoglia maggioranza di centrosinistra promuovesse una qualsivoglia riforma della Costituzione in accordo con l’opposizione, cioè con Silvio Berlusconi; c’è il no dello stesso Berlusconi, che si unisce a quello, assai più coerente con i relativi comportamenti parlamentari, della Lega e del resto della destra; c’è il no di Massimo D’Alema e di un pezzo importante di quell’area riformista che ai tempi della Bicamerale tentò la strada dell’accordo con il Cavaliere, finendo stritolata tra il voltafaccia del leader della destra e la rivolta di un pezzo della sinistra; c’è il no di chi gioca semplicemente allo sfascio, cioè i cinquestelle, che anche per questo saranno verosimilmente gli unici a potersi intestare il risultato di un’eventuale vittoria. Cioè, per l’appunto, lo sfascio.
Ma ci sono pure molti modi di dire sì. C’è, ad esempio, un sì che riduce tutto allo scontro tra vecchio e nuovo, riforme e conservazione, passato e futuro. E un sì che vuole scegliere, invece, anche quale parte del passato portare nel futuro. E quale parte del futuro che finora ci è stato prospettato consegnare finalmente al passato, a cominciare, magari, da questo vecchissimo modo di raccontare le battaglie politiche come un eterno scontro tra vecchio e nuovo. Come se l’alternativa fosse semplicemente tra le riforme e la stasi, quasi che in politica esistesse una sola ricetta, un unico e indiscutibile pacchetto di riforme da accettare o rifiutare in blocco, e l’unica scelta rimasta fosse tra mangiare questa minestra e saltare dalla finestra. Un modo di presentare le cose che è andato molto di moda tra gli anni novanta e duemila, non solo Italia, e che è forse la prima ragione del successo dei populismi in molti paesi occidentali, dove in troppi ancora scontano le conseguenze di una crisi economica mondiale che è anche il frutto di quella ricetta.
Qui sta anche la differenza di fondo tra due modi di dire sì e di cercare di aprire davvero una pagina nuova, perché accettare l’idea che la distinzione tra destra e sinistra sia superata, che l’unica differenza rimasta sia tra riformisti e sfaticati, tra chi vuole fare e chi non combina nulla, significa confermare il punto decisivo della propaganda populista: e cioè l’antichissimo adagio secondo cui «destra o sinistra sono tutti uguali», e pertanto l’unica cosa di cui l’elettore dovrebbe preoccuparsi è che l’eletto, di destra o di sinistra che sia, perlomeno non rubi. È la differenza tra chi ritiene che i populismi vadano inseguiti e combattuti sul loro terreno, e chi invece ritiene che se vinci con il populismo, alla fine dei conti, è il populismo che vince.
Noi pensiamo infatti che l’errore più grave compiuto da Matteo Renzi non sia stata la personalizzazione, ma la grillizzazione del voto referendario. Avere indicato come uno dei meriti principali della riforma il “taglio dei politici” e i conseguenti risparmi, inevitabilmente, ha scatenato una gara al ribasso che ha avuto l’unico effetto di svilire il disegno costituzionale, abbassando terribilmente il livello del dibattito e portando acqua, per non dire di peggio, al mulino del no. Non si tratta solo di una questione di principio ma anche di un errore tattico, perché è un terreno sfavorevole: se si trattava solo di risparmiare, è evidente a chiunque che non c’era nessun bisogno di fare tutto questo casino. Ma soprattutto, se questa è la considerazione che noi stessi mostriamo della politica, non potremo stupirci se poi gli italiani ne trarranno la conclusione che in parlamento tanto vale mandarci Di Maio.
Non crediamo sia un caso se il clamoroso 25 per cento raggiunto dai cinquestelle in parlamento sia arrivato dopo due anni di governo Monti, vale a dire nel momento in cui più che mai la politica è parsa rassegnarsi all’idea di un’unica ricetta, un’unica e salatissima minestra da mandar giù a ogni costo. Ora che Mario Monti e Beppe Grillo si ritrovano insieme nel fronte del no, dopo i tanti successi raccolti da entrambi sull’onda delle campagne contro la “casta”, è bene che almeno nel fronte del sì emerga dunque una posizione diversa. Radicalmente, culturalmente, filosoficamente diversa dall’antipolitica liberista e populista che in fondo, in una forma o nell’altra, ci tormenta da oltre un quarto di secolo. Il sì di chi vuole guardare al futuro senza perdere la memoria e l’orgoglio della propria storia. Il sì di chi vuole andare avanti, ma restando sempre dalla stessa parte. Il sì di una sinistra che non demonizza gli avversari, e tantomeno i compagni, a qualunque corrente appartengano. Il sì di chi sulle proprie bandiere, prima di scendere in piazza, non scrive «innovazione», ma ancora e sempre «libertà, eguaglianza, fratellanza». Il sì dell’avvenire.