Che le cose in Iraq, a tre anni dall’inizio della guerra, non stiano andando secondo le previsioni sta diventando senso comune anche negli Usa. Tanto da cominciare ad avere forti riflessi politici interni. Dapprincipio sono stati gli analisti a registrare la necessità di una svolta: per Kenneth Pollack “la ricostruzione in Iraq non è condannata a fallire, ma l’Amministrazione Bush non ha ancora una strategia che ha probabilità di riuscire”. Nel rapporto, intitolato “Una nuova strategia per l’America in Iraq”, si scrive poi che ci sono “due problemi separati ma interrelati: una insurrezione e uno stato ‘fallito’; gli Stati Uniti hanno devoluto considerevoli energie e risorse a combattere l’insurrezione, ma usando una strategia sbagliata. Comunque ancora più dannoso è stato il fallimento nel ricostruire lo stato iracheno ‘fallito’ ”. Che infatti oggi rischia di spezzarsi. Risultando questa analisi sempre più incontrovertibile, agli analisti si stanno così aggiungendo anche i politici: e tale transumanza è stata accuratamente fotografata dalla nuova National Security Strategy (Nss), uscita a metà marzo 2006 e che aggiorna quella del 2002 alla base dell’intervento in Iraq. In essa cambia l’impianto filosofico, tanto da far dire ad alcuni commentatori che con la sua pubblicazione la “rivoluzione di Bush è ufficialmente finita” e che la nuova Nss è piuttosto il ritorno a quella di Clinton del 1999. Essa infatti pone l’accento non più sulla forza bensì sulla diplomazia, e mentre in quella del 2002 la priorità era l’abbattimento di “stati canaglia” attraverso una politica di esportazione della democrazia fatta di unilateralismo e di azioni militari preventive, oggi invece l’obiettivo è – giustamente – la cura degli “stati falliti”, che immersi nel vortice della globalizzazione possono destabilizzare tutto il sistema. Perché mentre nella Guerra Fredda – che tanto ha influenzato i neoconservatori – il problema del sistema internazionale erano gli “stati canaglia”, nel mondo post guerra fredda e immerso nella globalizzazione il problema diventa piuttosto quello degli “stati falliti”. Il nuovo capitolo dedicato alle minacce transnazionali, del resto, è il tardivo riconoscimento di tutto questo. Con quattro anni di ritardo, l’enfasi passa così dal “cambio di regime” alla “democratizzazione”. Ed essa – come si vede in Iraq – non può essere fatta dagli Stati Uniti da soli. Oggi l’enfasi è su “costruire” e non più “esportare” la democrazia. Il problema politico da risolvere, però, è che l’intervento del 2003 sta già sconvolgendo il Medio Oriente e il suo status quo. E non nel senso auspicato dagli Usa.
Il primo paese ad accorgersene e a battere cassa è stato l’Iran. Un secondo effetto importante è stato poi la creazione di un destabilizzante “asse degli esclusi”: Russia e Turchia. Per quanto riguarda la Russia, l’intervento in Iraq l’ha esclusa per la seconda volta – dopo l’intervento nel Kosovo del 1999 – dal poter partecipare alla decisione in paesi dove prima era la potenza regolatrice: ciò avrà ripercussioni sia nel rafforzamento del suo isolazionismo neoimperiale – nel campo dell’energia in particolare – sia nel suo porsi come sponda di disturbo in vicende dove questo potrebbe fare la differenza, come sul nucleare in Iran. Per quanto riguarda la Turchia, invece, l’intervento in Iraq e il nuovo ruolo acquisito dai curdi iracheni hanno dato grande impeto al nazionalismo turco e all’antiamericanismo: basti pensare all’enorme successo che in Turchia sta avendo il film “La valle dei lupi”, basato su un incidente realmente avvenuto tra esercito Usa e forze speciali turche nel luglio del 2003 a Sulemainya, nel Kurdistan iracheno. Nel film, pieno di torture e abusi degli americani in Iraq, un leader turcomanno iracheno protesta per il fatto che gli americani hanno concesso le montagne ai curdi, dato il deserto agli arabi e tenuto il petrolio per sé.
Il terzo e forse più importante effetto dello sconvolgimento iracheno, infine, è che a giovarsi degli spazi politici creati ex novo è l’Islam politico radicale. Beffardamente, anche nelle elezioni: ha cominciato l’Iran, poi è stata la volta di Hizballah, poi quella dei Fratelli Mussulmani in Egitto, per terminare con la grande affermazione di Hamas. E non sembra finire qui: il partito islamista sciita Al-Uifaq (la concordia) ha deciso di partecipare e sembra poter vincere le prossime elezioni politiche di ottobre in Bahrein, dove il 70% della popolazione è sciita e dove ci sono state – in seguito alla distruzione della moschea d’oro di Samarra dello scorso febbraio in Iraq – le più grandi proteste popolari nella storia del paese. Lo stesso potrebbe accadere in Yemen.
In conclusione, mentre gli Usa immaginavano un Medio Oriente molto simile all’Europa dell’Est, dove spazzata via la dittatura sarebbe facilmente emersa una matura società civile e una forte generazione di pimpanti riformisti, la realtà si è rivelata dolorosamente assai diversa ed esotica. Il Medio Oriente non è l’Europa dell’Est e i riformisti sono braccati e combattuti, e spesso vinti, in una feroce guerra civile per l’egemonia all’interno della civiltà islamica. Perché il primo problema del Medio Oriente non è quello del deficit democratico, quanto piuttosto quello dell’identità nazionale, che è appunto l’oggetto di tale guerra civile. E mancando la dimensione “nazionale” ecco spiegato il grande richiamo esercitato dalla religione. In questo spazio si è inserito l’Islam politico radicale, con slogan assai suggestivi: “l’Islam è la soluzione” e “il Corano è la Costituzione”. Al contrario di ciò che hanno immaginato gli Usa, dunque, non si tratta di riscattare identità nazionali oppresse bensì di costruirne di nuove.
Ma la questione politica si è davvero posta – per la centralità della questione israelo-palestinese – con la dirompente vittoria di Hamas: che cosa fare in questo nuovo Medio Oriente? Insomma: si può correre il rischio che ad approfittare dei nuovi spazi politici ed elettorali siano dei partiti islamisti? Dalla risposta a questa domanda dipende tutta la strategia Usa e dunque il corso delle cose in Medio Oriente.
Per questo è utile un ragionamento a favore del prosieguo della strada che porta all’inclusività e alla responsabilità di governo dell’Islam politico radicale. Non solo per il vecchio e sempre valido argomento che il consenso si trova dove si trova, e con esso è sempre razionale fare i conti. Ma anche perché l’Islam, anche quello politico radicale, non è tutto uguale e univoco. Molte organizzazioni islamiche radicali sono infatti in transizione: Hamas, Hizballah e altre organizzazioni dispongono al momento sia di una dimensione politica sia di un’organizzazione armata. Una decisione di inclusione o esclusione in un processo politico potrebbe influenzare in modo decisivo la loro evoluzione in un senso o nell’altro. Ed esiste una differenza abissale tra i tagliatori di teste di Al-Qa’ida, dediti al terrorismo globale, e un partito come Hizballah o come Hamas. Ed ecco dunque il dilemma: sembra difficile operare qualche trasformazione in Medio Oriente senza l’attiva partecipazione dell’ala moderata dell’Islam politico radicale. Un’ala che per poter diventare compiutamente moderata – e dunque smentire il timore che la loro inclusione porti alla situazione di “una testa, un voto, una volta soltanto” – deve essere riconosciuta e poi lentamente trasformata. Tutto ciò implica una rivoluzione nel modo di pensare il Medio Oriente molto più profonda di quella tentata da Bush con l’esportazione della democrazia, che pure gettava alle ortiche una politica Usa di stabilità seguita dal 1945. Ma si tratta di un passo necessario. Non solo per il Medio Oriente ma per il mondo intero, che dall’assetto di questa regione tanto è influenzato. ■