Quello che sta accadendo in Francia è l’esempio di quello che potrebbe presto accadere in Italia. Dalla rivolta autodistruttiva degli emarginati delle banlieue all’occupazione della Sorbonne da parte degli studenti, passando per le sconcertanti dichiarazioni di Chirac contro l’Italia, il male che corrode la Francia – e che brucia ormai un primo ministro l’anno – sta nell’incapacità di indicare risposte coerenti ai nuovi problemi che da almeno un decennio stanno modificando i contorni della politica in Europa. La migliore metafora di questo sommovimento l’ha offerta una giovane portavoce degli studenti, spiegando la differenza tra le attuali proteste contro il contratto di prima assunzione e le lotte del sessantotto. “La nostra ribellione – ha dichiarato ai giornali Nadjet Boubekeur – non è per ottenere di più. E’ per mantenere quello che abbiamo”. Non avremmo saputo sintetizzare meglio il passaggio dalla fase espansiva della sinistra europea, nell’epoca d’oro del compromesso keynesiano, alla stagione aperta dalla crisi degli anni settanta, con la svolta liberista e quella che fu chiamata la rivoluzione thatcheriana. Quella rivoluzione conservatrice che secondo Orazio Carabini (il Sole24ore di venerdì 24 marzo) in Italia sarebbe arrivata con circa dieci anni di ritardo, con l’inizio delle privatizzazioni e il formarsi di un’opinione condivisa sulla necessità di una ritirata dello stato dall’economia. Un’interpretazione quantomeno audace, considerati gli attori principali di tale rivoluzione thatcheriana: Carlo Azeglio Ciampi e Giuliano Amato, sindacati e Confindustria, il Partito democratico della sinistra e l’ala progressista della morente Democrazia cristiana. Non a caso fu nel fuoco di tale crisi drammatica che nacquero la concertazione e il primo embrione di quello che solo qualche anno dopo sarebbe divenuto il centrosinistra. Ma sebbene la concertazione sia l’esatto contrario del thatcherismo, la tesi non è certo manifestamente infondata (rimandiamo su questo a Carlo Derrico, che qui ne parla diffusamente, oltre a formulare alcune acute osservazioni “in dissenso” sulla nuova legge proporzionale).
Nella stagione del risanamento dei primi anni novanta, sia pure con molti limiti e tra mille contraddizioni, quella prima coalizione di centrosinistra ancora in forma embrionale e politicamente quasi clandestina riuscì a evitare la bancarotta dello stato e la fuoriuscita dell’Italia da ogni ipotesi di integrazione europea. Dopo la brevissima parentesi berlusconiana, nel ’96 quella stessa coalizione, sebbene politicamente ancora ben lontana dal consolidarsi (vedi l’accordo di desistenza con Rifondazione), portò a termine il compito con l’ingresso dell’Italia nell’euro. E ora, dopo la nuova disastrosa esperienza berlusconiana, l’Unione di centrosinistra è chiamata alla sua terza prova. E può farlo avendo finalmente definito i propri confini e il proprio programma, soprattutto grazie alla scelta di costruire un nuovo partito dalla fusione tra Ds e Margherita, che non a caso rappresenta innanzi tutto la naturale evoluzione di quel percorso cominciato nei primi anni novanta.
Oggi il centrosinistra deve dunque ripartire da lì, ancora una volta. Dai nodi non sciolti di tale infinita transizione. E davvero non avremmo saputo sintetizzare meglio di quella studentessa francese la condizione in cui rischiano di ritrovarsi ancora una volta isolati la sinistra, il sindacato e tutti i movimenti progressisti d’Europa: la lotta non per avere di più, ma per mantenere quel che si ha. Lasciando ai sostenitori della rivoluzione liberista il facile compito di indicare a quegli studenti la rivolta dei loro coetanei delle banlieue. Una rivolta tanto più brutale, impolitica e improduttiva di quella del movimento che oggi forse si appresta a trattare con il governo, in quanto i giovani magrebini delle periferie, al contrario degli studenti, non hanno niente da difendere. E come spesso accade, per paradossale che possa sembrare, non avendo niente da difendere, non hanno nemmeno niente da rivendicare.
Starà dunque ancora una volta al centrosinistra il compito di dimostrare che il modo migliore per risolvere quella contraddizione sta in una politica di ampie alleanze sociali, attenta alla costruzione del consenso e alla concertazione, senza lasciarsene imprigionare. Perché la Francia che oggi si dibatte in una crisi apparentemente senza sbocchi – e che prima ancora che economica è politica e civile – non è certo la patria del liberismo. Ma potrebbe essere l’Italia del 2010, se il risultato della lista unitaria alle prossime elezioni non si dimostrerà nei suoi effetti almeno pari a quello delle primarie, imprimendo una nuova accelerazione alla costruzione di quel partito riformista che solo può trovare in se stesso e nel paese le risorse sufficienti ad affrontare una simile sfida. E farlo, soprattutto, senza tramutarsi nella triste caricatura di un sinistro gollismo, copia sbiadita di un originale praticamente già fuori commercio.