In questa fase di scontro tra titaniche convinzioni, di confronto sull’efficacia persuasiva di una tesi sull’altra, esprimo qualche considerazione di natura più emozionale circa la riforma affidata al referendum confermativo. Comincio dalla reazione avuta all’epoca della sua presentazione, a caldo: una sottile delusione, una condivisione tenue, un renitente consenso. Mi era parsa sin da subito una scelta caratterizzata dal compromesso, quale in effetti era. Una manutenzione straordinaria, ancorché l’edificio fosse contraddistinto da crepe tali da giustificare una più profonda ristrutturazione. Mi riferisco al grado di ammaloramento del sistema politico democratico, schiacciato dalla pressione e rapidità dei mutamenti sociali, culturali ed economici provocati dalla globalizzazione e dagli effetti della rivoluzione tecnologica, e dalla conseguente mobilità epocale di milioni di esseri umani di diverse estrazioni civili e religiose. La sfida al modello democratico occidentale, a parer mio ancora di gran lunga il migliore dei sistemi possibili, provocata dalle sue stesse leggi economiche.
Come rivitalizzare la coesione delle comunità, come individuare nuovi canali di formazione del consenso attorno alle politiche pubbliche, come restituire autorità e prestigio al munus publicum, come organizzare la democrazia muovendo dagli individui verso le formazioni sociali e politiche scosse alle fondamenta dalla propria inadeguatezza. Questo mi pareva il punto. L’alimento del populismo nasce lì: sei a capo di una istituzione, conservi i gradi e i paramenti del sacerdote, ma non riveli nessuna dote particolare nel saper affrontare e risolvere i problemi che affliggono sempre più le persone. Una riedizione contemporanea della crisi dell’ancien régime (con le note conseguenze alle porte, senza nemmeno il corredo filosofico dell’illuminismo). E quindi lì occorre prima o poi concentrare l’obiettivo.
La proposta, si diceva, provava a iniettare un siero antiruggine nelle fondamenta, anziché cimentarsi con un più corposo consolidamento, di cui si era parlato nei trent’anni precedenti, senza costrutto e convinzione, evidentemente. Il minimo comune denominatore, prima quindi delle diverse opzioni di profondo cambiamento nel modo di funzionare del sistema politico e istituzionale, veniva varato da una maggioranza di larghissime intese, che includeva tutte le sensibilità delle culture politiche e costituzionalistiche che si erano scontrate con morti e feriti nella stagione inaugurata con la crisi della Prima Repubblica, generosamente chiamata Seconda (per mancanza di avversari, se fosse una graduatoria).
Al più, se non proprio un lifting, una chirurgia estetica, per ritrovare il desiderio reciproco tra istituzioni e comunità. Meglio di niente, non ho mai avuto contrarietà ai ritocchi per mano chirurgica; ma su temi decisivi come le forme e i condizionamenti dell’azione pubblica (eccesso normativo, panpenalismo, esuberanza e tracotanza dei poteri di controllo, ridondanza di procedimentalizzazioni, scarsa accountability su azioni e obiettivi, uso delle nuove tecnologie), una sana rimozione in nome del realismo politico, provocata dalla tripartizione del corpo elettorale e dal caleidoscopico corollario di dissenting opinion tra e nelle forze politiche rappresentate in parlamento. Ecco, di fronte a queste emozioni, la narrazione della grande riforma, che restituiva forza e credibilità al malato, pareva oggettivamente un tantino esagerata. Ma proprio per questo si trattava di dare rapida approvazione al progetto di riforma, per dedicarsi poi alla parte più difficile, rimasta irrisolta quantomeno a far data dal fatidico 1992, e fortemente aggravata dalla grande crisi del 2008 e seguenti.
Il mio approccio al tema si trova dunque anzitutto spaesato, di fronte alla propaganda del No. Ma come, non avvertite anche voi lo scricchiolio? Non vi accorgete che per qualsivoglia disegno o proposito abbiate in mente, questo sistema appare arrugginito sino al rischio di spezzare l’anima delle fondamenta? Non cogliete la radicalità della crisi e l’inefficacia del mezzo a disposizione per combatterla? Davvero non sentite l’urgenza di mettere mano a una razionalizzazione minima per provare a rispondere con rapidità e maggiore dinamismo alle molteplici sfide della contemporaneità?
Quando penso alla riforma, penso a quegli studenti che combattono per la sufficienza al primo trimestre, con il proposito, nel secondo, di puntare a un più tranquillo sette. Come tutte le prove scolastiche, esse assumono un significato importantissimo per chi le vive sulla propria pelle, spesso al di là di quanto meritino. E per questo penso che votare Sì oggi sia un modo semplice di provare a raggiungere la sufficienza senza perdere l’anno (quello speso per studiare pur tra molte distrazioni). Quanto alle ragioni del No, me ne sfugge addirittura il senso (un abbraccio ai costituzionalisti del No per lo sterile sforzo argomentativo), tranne una, l’unica a far premio su molte elementari verità: far male al governo e al suo presidente. Si tratta però di un argomento che può avere senso per un Salvini o un Grillo, mentre non ne ha alcuno per un Berlusconi (che infatti bofonchia argomenti obiettivamente contorti) e tantomeno per una minoranza della sinistra, se non preceduta da una tracimazione di ostilità non accompagnata dalla lucida convinzione nelle proprie ragioni e ambizioni.
Inutile dire che dalla crisi di governo provocata dalla vittoria del No, inevitabile e inesorabile date le premesse di partenza dello stesso governo in carica e della legislatura in corso (chi non le ricorda, può rimediare consultando qualche archivio e assumendo una dose di Multicentrum), si uscirebbe con un “equilibrio politico” meno avanzato. Cioè piú arretrato. Cioè o un governo tecnico di impronta commissariale europea e dunque liberal rigorista, o un governo politico di larghe intese Pd-Forza Italia (sull’ipotesi di un coinvolgimento dei cinquestelle adombrato da Pier Luigi Bersani, al di là della sua evidente improbabilità, dico subito che tratterebbesi di arretramento). A meno che non siano proprio le prove generali delle larghe intese, quelle cui si mira, senza però avere il coraggio di dirlo chiaramente agli elettori. Perché altrimenti sarei pronto a discuterne, in mancanza di alternative. Ma dicendolo prima, quando si andrà a votare senza più il ballottaggio, come da accordi sopravvenuti.