Da alcune settimane i cittadini di Roma stanno assistendo a una surreale polemica circa l’apertura di un McDonald’s a Borgo Pio, lo storico quartiere adiacente a San Pietro. In breve, un comitato di cittadini del quartiere, un gruppo di dirigenti politici, l’immancabile Codacons, hanno chiesto ripetutamente al sindaco di Roma, al ministro Franceschini e perfino al Papa, che fosse impedita l’apertura del fast food in una delle strade dello storico quartiere. Tra le motivazioni della protesta, per lo più incomprensibili («la sicurezza degli obiettivi sensibili, la tutela dell’ordine pubblico, l’aumento il traffico»), figura la solita accusa di «stravolgere l’identità artistica, culturale e sociale del rione, di aggravare lo scempio del territorio e il degrado del centro storico». In quale modo un ristorante che, a quanto risulta, ha ottenuto tutte le autorizzazioni e i permessi prescritti dalla legge, che impiega personale regolarmente contrattualizzato, adempie alle norme igienico sanitarie, che ha un’insegna sobria e nessun tavolino sul marciapiede, in che modo un simile ristorante possa ledere la dignità del rione non è dato sapere. Viene il sospetto che a infastidire i promotori dell’appello sia soprattutto il nome del ristorante, quello della multinazionale della ristorazione associata generalmente a omologazione culturale, turismo di massa e cibo a buon mercato. E infatti non sorprende che tra i firmatari dell’appello figurino esponenti del mondo culturale da lungo tempo impegnati nella crociata contro l’imbarbarimento della società moderna e che forse sognano per Roma un turismo elitario e danaroso che non disturbi troppo le loro attività.
Spiace invece di trovarvi i nomi di alcuni esponenti del Pd, come l’ex vicesindaco Walter Tocci, che si è sempre contraddistinto per una visione laica e moderna della città e che è solitamente assai lontano da derive ideologiche e da battaglie di retroguardia. Nella gestione della vicenda si è poi assistito a un avvilente rimpallo di responsabilità tra l’assessore al commercio del Comune di Roma (M5S) e il presidente del Municipio, Sabrina Alfonsi (Pd), con quest’ultima incapace di prendere una posizione chiara e netta sulla questione, invocando dapprima un decreto governativo che permettesse di bloccare i fast food nei centri storici, e sfilandosi poi dalla questione come se nulla fosse.
Che la minaccia all’identità storica e culturale di Borgo Pio venga dall’apertura di un McDonald’s è una cosa che può pensare solo chi non ci mette piede da trent’anni e lo immagina popolato solo da prelati e intellettuali, trattoriole storiche, piccole librerie ecclesiastiche e negozi di arredi sacri. La realtà di Borgo Pio, invece, è fatta – da decenni, non da oggi! – di ambulanti regolari o abusivi che vendono borse contraffatte, bancarelle, negozietti di souvenir che espongono la peggiore paccottiglia, procacciatori di turisti per visite guidate scadenti, ristorantini finto-romaneschi, pizzerie, kebabbari di discutibile qualità. Chiunque abbia camminato anche solo per cinque minuti per le strade di Borgo Pio sa bene che, per quanto possa apparire paradossale, l’apertura di un fast food grande, pulito e coi permessi in regola, rappresenta semmai un miglioramento delle condizioni di decoro del rione, e che in confronto al suk che popola quelle strade le vetrine di McDonald’s sembrano quelle di Tiffany. Con quale credibilità e con quali argomenti un’amministrazione che a Borgo Pio tollera la più aperta illegalità e il più completo caos potrebbe opporsi all’apertura di un ristorante, per quanto omologato e culturalmente non all’altezza del prestigioso rione?
La politica deve certamente promuovere, valorizzare e incentivare un’offerta turistica di qualità, difendere la tradizione gastronomica romana; ma che una parte, pur piccola, della sinistra romana possa anche solo pensare di vietare l’apertura di un ristorante economico per famiglie in un luogo frequentato ogni anno da milioni di turisti e di pellegrini è una cosa francamente incomprensibile. E a proposito di omologazione, forse è il momento di chiedersi se davvero il modo migliore per valorizzare il nostro patrimonio culturale e difendere l’identità delle nostre città sia quello di adeguare l’immagine dei nostri centri storici a un cliché sclerotizzato come quello del “salotto della città” fatto solo di ristorantini pittoreschi, caffè di qualità e atmosfere rarefatte. Davvero si può accettare l’idea che nel centro storico di una grande capitale europea si debbano servire – per legge! – esclusivamente pizza, carbonara e carciofi alla giudìa, e che possano esistere solo trattorie tipiche? E poi cosa? Dovremo selezionare solo camerieri mori e coi baffi? Non è questa idea stessa la più omologante di tutte? Alla fine McDonald’s ha aperto, i comitati di quartiere sopporteranno le famiglie di turisti e gli adolescenti rumorosi, ma il dibattito innescato, per quanto con argomenti così capziosi, è destinato a durare. C’è in ballo l’identità delle nostre città, il senso del loro patrimonio culturale e il modo in cui vogliamo entrare nel futuro. Anche di questo parliamo, infatti, quando discutiamo di quale ruolo debbano avere i nostri centri storici nel mondo globalizzato, tra l’esigenza di mantenere la propria identità e il rischio di diventare la caricatura di se stessi.