I referendum sulla legge 40 su cui saremo chiamati a votare hanno anzitutto il merito di accendere nel paese un dibattito culturale, civile e politico intorno a scelte di fondo, che riguardano temi essenziali: la nascita, la vita, la salute, i diritti della donna e del nascituro, i limiti della scienza e della tecnica. Questo solo aspetto mi pare sufficiente a dar torto a coloro i quali invitano all’astensione. Che non si dorranno troppo, se io mi aspetto che, perciò, si astengano anche dal contribuire alla discussione in corso.
E a proposito di contributi: a fornirne sono chiamati politici, medici, scienziati, teologi, cardinali e, in una vasta e imprecisata schiera di intellettuali, anche, perché no?, i filosofi.
Come ultimo appartenente a questa categoria me ne rallegro, ovviamente, ma mi piacerebbe capire meglio a qual titolo si ritiene, in genere, che il filosofo possa e debba dire la sua su argomenti così importanti. Se non su questi, su quali?, si dirà. Già. Se non si occupa di vita e di morte, di diritto e di morale, di cosa mai potrà occuparsi un filosofo? Facciamo dunque che se ne occupi. Ma il dubbio riguarda i titoli che il filosofo può vantare per intervenire nel dibattito. Si vede bene perché i giornali ascoltino il parere di medici e scienziati: saranno loro a dirci ad esempio cos’è un embrione, che cos’è l’analisi pre-impianto, come si pratica la fecondazione eterologa. Quanto ai politici, sono loro che hanno votato pro o contro la legge. Quale che sia poi la competenza dei cardinali, essi ne hanno indubbiamente una, della quale sono pure sacramentalmente investiti, almeno sulla dottrina che la Chiesa elabora in materia: si ascoltino anche loro. Ma, sacramenti o meno, quale competenza può vantare il filosofo? Che i filosofi siano ascoltati, non c’è dubbio. Severino scrive ad esempio sul Corriere, Possenti lo si legge sul Foglio, Mathieu su Ideazione, Givone sul Messaggero, De Monticelli su Avvenire, Vattimo sull’Unità e sul Manifesto, Cacciari qua e là: tutti costoro (e altri ancora) hanno avuto modo di dire la loro. Ma il dubbio è se appunto si tratti per il filosofo di dire soltanto la sua opinione. La quale sarà anche colta e informata, nutrita da buone letture e da robusto senso storico, ma rimarrà opinione. Autorevole, ma pur sempre opinione.
In una società democratica, tuttavia, sono proprio le opinioni a confrontarsi: il filosofo non dovrebbe troppo dispiacersi se tocca anche a lui di pronunciarsi in quanto opinionista. La democrazia rende, a lui come a tutti, la parola. Se poi la sua parola riesce anche accattivante, c’è caso che i talk-show televisivi ne facciano il proprio beniamino e lo presentino volentieri affianco ad almeno una delle sorelle Lecciso. (Altre varianti del filosofo in tv sono: il pensatore circondato da impalpabile aura che, spiazzando tutti, spiega che “il problema è un altro”; il filosofo che, con o senza barba, difende i valori e si chiede preoccupato dove andremo a finire; il filosofo di complessione delicata che vende pappa del cuore e supplementi d’anima buoni per i nostri aridi tempi. Quest’ultima variante è praticata anche da psicologi di ogni specie).
La scena si presenta dunque in questo modo: lo scienziato dice come stanno i fatti, il cardinale ci indottrina e il filosofo finisce nel mucchio degli opinionisti a dire la sua su fatti e dottrina. Stabiliti gli uni, sancita l’altra. E in effetti il filosofo non ha un sapere pari a quello dello scienziato, non dispone di evidenze empiriche e prove sperimentali, fa spesso confusione ed è rimbeccato dai suoi stessi colleghi (i filosofi sono come gli orologi: non se ne trovano due che dicono lo stessa cosa): cosa dunque pretendere di più?
Nulla da una democrazia, tutto dalla filosofia. La quale è bell’e svanita – che i filosofi se ne ricordino, prima di dire la loro – se i fatti sono già là, in attesa che si formulino le opinioni. Una filosofia che non abbia nulla da dire su come stanno i fatti, scade per ciò stesso a opinione e come opinione merita di essere trattata: accanto alle Lecciso.
Per stare alla bioetica, i dati oggettivi che concernono il bios, la vita, si ritiene siano di pertinenza esclusiva dello scienziato: escono dal suo laboratorio. Solo dopo che sono usciti, si affollano le opinioni sull’ethos, su diritti e valori, fin dove si può e fin dove non si può.
Nei referendum sulla fecondazione assistita, molte e importanti cose sono in gioco: ne va dei diritti dei cittadini, dell’etica pubblica, della ricerca scientifica, e di molto altro ancora. Mi rendo conto che può apparire di interesse esclusivo della categoria (la quale, non adeguatamente sindacalizzata, ne avrebbe comunque bisogno), ma è bene si sappia che è in gioco anche il senso stesso del far filosofia. E’ ancora possibile una filosofia della natura, o questa è ormai solo il sogno sognato un’ultima volta dai romantici? Ma una filosofia che ha rinunziato a domandarsi cosa è vita e cosa è natura, che ha rinunciato definitivamente, a favore della scienza, a fare “fisica”, fuggendo a gambe levate nella metafisica (oppure, dichiarandola estinta, mettendosi a fare solo una rachitica storia della filosofia), una filosofia che si è autoesiliata nell’etica (che, senza fisica, senza una dottrina di ciò che è, sarà priva di qualunque fundamentum in re), una filosofia del genere non serve a nulla. Per le decisioni che contano, si ascolteranno i tecnici – e, ça va sans dire, i cardinali. Ma finché vi saranno o questioni scientifiche o questioni di coscienza, o scienza o fede, quale spazio potrà mai avere la filosofia? L’ho detto già: accanto alle Lecciso.