L’elezione di Donald Trump aveva sollevato domande non scontate sulla natura dell’onda populista che in questi anni è cresciuta in tutti i paesi occidentali. I suoi primi atti da presidente hanno dato a quelle domande risposte inequivocabili. Con il «bando ai musulmani» non siamo più nel campo delle sparate e delle provocazioni: tra gli applausi della destra nazional-populista di tutta Europa, da Marine Le Pen a Geert Wilders, passando in Italia per Matteo Salvini e il Movimento 5 Stelle, il presidente degli Stati Uniti ha mostrato di non tenere in alcun conto principi fondamentali alla base del diritto internazionale e della stessa costituzione americana. Lo aveva già fatto a parole, dichiarando senza mezzi termini che «la tortura funziona» e che gli Stati Uniti l’avrebbero usata. Ma con l’atto esecutivo sui cittadini provenienti da sette paesi a maggioranza musulmana Trump ha varcato una volta per tutte il confine tra le parole e i fatti.
La linea difensiva della Casa Bianca, secondo il classico gioco del tirare il sasso e nascondere la mano tipico di tutti i leader populisti, dice ora che si tratta dei paesi individuati come pericolosi da Barack Obama, che già una volta lo stesso Obama aveva bloccato i visti degli iracheni per qualche mese, che la religione non c’entra nulla e che dunque non è affatto un «bando ai musulmani» e non va chiamato così. Peccato che il primo a parlarne in questi termini non sia stato un avversario politico o un giornale ostile. È stato Donald Trump, in campagna elettorale, a dire che per difendere gli Stati Uniti dal terrorismo avrebbe bloccato l’ingresso dei musulmani nel paese. E ora, come hanno ricordato su twitter Marine Le Pen e Carlo Sibilia, più o meno con le stesse parole e certamente con lo stesso entusiasmo, non sta facendo altro che applicare il suo programma. Questo, almeno, era il messaggio che voleva far passare e che è effettivamente passato: sta mantenendo le promesse. E la sua promessa agli americani era proprio questa: bando ai musulmani.
Inutile, dunque, cercare di minimizzare. Siamo davanti a un salto di qualità che avrà ripercussioni durature e imprevedibili anche nelle relazioni internazionali, come testimoniano le reazioni dei principali capi di stato e di governo del mondo. Un salto di qualità che costringe a riconsiderare anche i termini della discussione che l’ascesa di Trump aveva aperto a sinistra. Era giusto, naturalmente, interrogarsi sul distacco cresciuto tra sinistra democratica e masse popolari in tutte le società occidentali. Criticare la torsione elitaria di una certa cultura liberal. Contestare l’idea che si potessero adottare le politiche della destra liberista, illudendosi di compensare a sinistra con la battaglia per l’ambiente, per i diritti delle minoranze e per il politicamente corretto. Cogliere il grano di verità che si nascondeva persino dietro la stupida accusa di occuparsi dei «cessi dei liberal» invece che dei disoccupati delle aree industriali, rivolta dalla destra radicale alla stampa americana impegnata a discutere del diritto dei trans a decidere liberamente di quale bagno servirsi, in piena campagna elettorale.
Separando la battaglia per i diritti civili delle minoranze da quella per i diritti sociali della larga maggioranza di lavoratori e pensionati sempre più poveri, si è aperto un fossato in cui la nuova destra si è insinuata e ha messo radici. Tutto questo è indiscutibile. Ma la forza delle immagini che vengono dagli Stati Uniti non consente equivoci. Se è vero che il successo di Trump è stato favorito anche dalla ritirata di una cultura progressista che ha smesso di rappresentare larga parte dei perdenti e degli esclusi della globalizzazione, nessuno può avere dubbi, di fronte alle immagini delle manifestazioni anti-Trump e dei rifugiati in lacrime negli aeroporti, su chi stia dalla parte dei più deboli e chi dalla parte dei più forti, in questa battaglia. Se la sinistra si identifica esclusivamente con la lotta per i diritti, dimenticando la questione sociale, rischia di trasformarsi in una élite liberale senza più rapporto col popolo. Ma se in nome della questione sociale rinuncia al diritto, si trasforma in fascismo.