Dice oggi Dario Franceschini al Corriere della sera che «un conto è il giusto ricambio dei gruppi dirigenti, altra cosa è la capacità di essere inclusivi, specie davanti ai rischi che stiamo correndo». Per questo, suscitando subito l’entusiastico apprezzamento di Maurizio Gasparri e Maria Stella Gelmini, propone di spostare il premio di maggioranza dalla lista (cioè dal partito) alla coalizione. «Nel campo riformista – spiega – c’è un’area di centro che ha collaborato con i governi di Letta e Renzi, e ora collabora con quello di Gentiloni: sarebbe strano se dopo cinque anni ci candidassimo su fronti contrapposti». Non so se si riferisca solo al Nuovo centrodestra di Angelino Alfano, come sembra. Già ai tempi dell’Ulivo 3.0, cioè dell’Unione, la grande coalizione riformista guidata da Romano Prodi andava da Rifondazione comunista a Clemente Mastella, e non ebbe vita facile. Né lunga. Figuriamoci una coalizione che dovesse reggersi sull’idea di aggregare le forze di “sistema” contro quelle “antisistema”. A leggere le parole di Franceschini, non vorrei passassimo direttamente dall’Ulivo al Doroteismo 4.0.