Con tutto il rispetto che meritano le persone, gli studi, le cattedre e le prestigiose testate che ospitano le opinioni di tanti autorevoli intellettuali, crediamo sia venuto il momento di porre senza tanti giri di parole un problema che riguarda gli attori del nostro dibattito pubblico. Sia chiaro sin d’ora che nulla abbiamo da eccepire sulla professionalità di studiosi quali Luca Ricolfi, Francesco Billari o Antonio Agosta. Quello che qui vorremmo discutere e sollevare come problema è l’emergere di una nuova figura pubblica, quella dell’intellettuale statistico, che nulla ha a che vedere con i concreti meriti o demeriti delle persone qui citate solo a mo’ di esempio.
Francesco Billari, su lavoce.info – e il professor Antonio Agosta in un’intera paginata su Repubblica di sabato – ci hanno spiegato che se il centrodestra non avesse modificato la legge elettorale, con il vecchio sistema, avrebbe vinto le elezioni. Invitiamo i lettori a verificare di persona (cliccando qui, per il professor Billari, o recuperando il giornale di sabato per lo studio del professor Agosta, sostanzialmente analogo). Non c’è dubbio che in un’aula universitaria la lezione sarebbe stata enormemente stimolante. Molti studenti avrebbero certamente tratto grande profitto dall’ascoltare il professor Billari spiegare come “per la Camera è stato utilizzato un modello di regressione lineare del tipo Y(i)=a+bX(i)+residuo(i) dove Y(i) è la quota di seggi (parte maggioritaria) conquistata dalla Casa delle liberta nella circoscrizione i-esima, e X(i) è la differenza tra i voti della coalizione di centrosinistra (Ulivo nel 2001) e quelli della Casa delle libertà”. Peccato che in un sito internet di carattere divulgativo, sotto il titolo: “Con il Mattarellum avrebbe vinto Berlusconi” (o su una pagina di giornale, sotto il titolo: “L’ultima beffa per la Cdl, senza riforma avrebbe vinto”), un simile ragionamento non possa essere definito altrimenti che demenziale.
La ragione per cui la Cdl (che non sarà composta da un pool di scienziati della levatura di certi editorialisti, ma nemmeno da un branco di pazzi) ha scelto di cancellare il sistema uninominale maggioritario sta proprio nel fatto che sistematicamente, nelle sfide collegio per collegio, prendeva assai meno voti (e conseguentemente, meno seggi) di quanti non ne prendesse nella quota proporzionale, dove il voto andava ai singoli partiti. Pertanto è ragionevole ritenere che anche questa volta – come in tutte le precedenti – la Cdl avrebbe preso meno voti, in una serie di scontri diretti tra candidati (senza contare la minore atrazione esercitata dalla coalizione di governo, che non a caso ha spinto la Cdl a parlare di schemi a tre punte e candidati premier alternativi). Cosa fanno invece i nostri professori? Prendono i voti raccolti dalla Cdl con questo sistema e li trasferiscono sui collegi, senza poter sapere (ovviamente) quali sarebbero stati i candidati di quei collegi (e senza chiedere il parere degli elettori). Secondo questo modo di ragionare, se con tale trasferimento coatto di voti uno qualsiasi dei vecchi collegi uninominali è andato all’Unione – poniamo in Piemonte – per loro ciò significa che ci sarebbe andato comunque, anche se la Cdl lì avesse candidato Silvio Berlusconi e il centrosinistra gli avesse contrapposto Armando Cossutta.
Il caso più significativo di questa nuova moda intellettuale è però quello del professor Ricolfi, il quale dopo essersi definito di sinistra e avere dedicato un libro a spiegare perché la sinistra è antipatica alla maggioranza degli italiani e un altro a spiegare perché Berlusconi ha rispettato il contratto “per più del cinquanta per cento” (e probabilmente facendo una fatica del diavolo per chiudere l’opera in tempo per la campagna elettorale), giustamente, è stato promosso sul campo editorialista di punta della Stampa di Torino.
La logica ricolfiana si può riassumere così. Poniamo che qui si prometta in premio a chiunque si iscriva alla nostra newsletter una Ferrari fiammante, un biglietto di auguri e una scatola di cioccolatini. E che all’indomani dell’iscrizione i gentili lettori si vedano recapitare un biglietto di auguri e una scatola di cioccolatini, ma di Ferrari neanche l’ombra. Ebbene, con dovizia di tabelle e modelli matematici, il professor Ricolfi vi spiegherebbe che la nostra promessa è stata mantenuta “per più del cinquanta per cento”.
Qual era infatti la Ferrari promessa da Berlusconi nel suo contratto con gli italiani? Meno tasse per tutti, ovviamente. In particolare: la riduzione delle cinque aliquote a due solamente: una al 23 per cento e l’altra al 33 per cento. Il risultato, dopo cinque anni di governo, è che delle cinque aliquote ne sono rimaste quattro, compresa quella al 43 per cento. Bella fregatura, direte voi. Niente affatto, spiega invece Ricolfi. Perché la promessa sulle tasse conteneva tre diversi impegni: oltre a quello citato, l’abolizione della tassa sulle successioni (che essendo stata già abolita dal centrosinistra per tutti salvo i detentori di grandi patrimoni, è costata al governo più o meno quanto un biglietto di auguri: un miliardo) e la no tax area per i poverissimi (che lo stesso Ricolfi riconosce essere stata realizzata nella misura più restrittiva possibile: una scatola di cioccolatini, di cui alcuni visibilmente premasticati). Fatto sta che somma questo e sottrai quell’altro, traccia un’elegante tabella e calcola la percentuale: l’impegno di Berlusconi è stato mantenuto per più del cinquanta per cento. E tutti a dibattere le tesi di questo studioso controcorrente, anticonformista e di sinistra. Tipico esempio della nuova figura emergente. L’intellettuale statistico.
E’ evidente che c’è qualcosa che non va nel paese. E’ chiaro che si è rotto qualcosa nel rapporto tra intellettuali, politica e società civile (a partire da quelle casematte costituite dai grandi gruppi economico-editoriali). In altre fasi della storia d’Italia, il dibattito intellettuale ha perso contatto con la realtà in una deriva estremistica fondata su astrazioni ideologiche insensate e armata di paroloni incomprensibili e pericolosi. In queste fasi cupe gli intellettuali hanno pensato di poter superare “l’infame buon senso” in virtù di una superiore consapevolezza e di un impegno politico sentito come un dovere civile. Oggi sembrano invece sprofondare ben al di sotto di quel comune buon senso al quale pure fanno appello, in nome di una terzietà e di un disimpegno sentiti come un imperativo etico e deontologico, rischiando però di apparire così al servizio di altri interessi. Interessi economici e “relazionali” di cui – nella migliore delle ipotesi – sembrerebbero avere smarrito ogni consapevolezza, perduti nel migliore dei mondi possibili edificato sui loro levigati modellini matematici.