I nodi non sciolti, prima o poi, vengono al pettine. Questa sembra essere la lezione da trarre dopo l’intervista di Massimo D’Alema al Corriere della sera. L’intervento del presidente ds e le reazioni che le sue parole hanno suscitato pongono l’Italia dinanzi a un bivio. A questo punto la politica ferma non può stare: o va avanti, o torna indietro. Per il centrosinistra è un’occasione storica. E’ la grande occasione mancata al tempo della commissione bicamerale. E non è un caso che a riaprirla siano state proprio le parole di Massimo D’Alema.
Il problema posto nell’intervista di venerdì è perfino elementare: occorre trovare una via d’uscita dalla crisi che consenta alla coalizione che ha vinto le elezioni di governare il paese. Ma questo è possibile solo attraverso un reciproco riconoscimento tra maggioranza e opposizione, che restituisca al paese una normale dialettica politica e parlamentare. Fuori dalla guerra civile strisciante di questi mesi, per riprendere il filo di un discorso condiviso sulle regole e sugli assetti istituzionali del paese. Questo il significato delle parole di D’Alema.
In una giornata di ordinaria follia mediatica, tanto è bastato per rievocare i fantasmi del “grande inciucio”. Da una surreale girandola di dichiarazioni, nel clima di sospetti da anni Trenta che si diffondeva immediatamente dalle agenzie di stampa ai giornali, venerdì persino il direttore di Europa cadeva vittima di quei riflessi condizionati che nel suo editoriale aveva giustamente ridicolizzato. Niente da fare, un articolo in cui si difendeva D’Alema dall’interpretazione macchiettistica prevalente sui giornali di destra (e non solo, notava Stefano Menichini), in pochi minuti veniva rilanciato dalle agenzie come un brutale attacco al presidente ds e come tale figurava sui giornali dell’indomani, nonostante le tempestive e vibranti smentite del suo autore.
La vicenda è più significativa di quanto potrebbe apparire a prima vista. Certo, se siamo in una simile situazione, buona parte del merito va a Silvio Berlusconi, lesto a raccogliere l’appello dalemiano e a replicare con parole di apprezzamento diffuse attraverso molteplici canali, rilanciando una proposta di grande coalizione che nessuno – e tanto meno D’Alema – aveva dato il minimo segno di volere raccogliere. Ma l’abilità tattica del Cavaliere non spiega tutto. Se il vecchio trucco del bastone e della carota per dividere gli avversari si mostra tanto efficace, la ragione sta in una debolezza strutturale del centrosinistra, che non ha nulla a che vedere con la risicata maggioranza ottenuta al Senato. Mentre Berlusconi continua a recitare due parti in commedia, da un lato denunciando brogli inesistenti e dall’altro atteggiandosi a statista responsabile in cerca di sponde tra i suoi avversari, la giornata di venerdì è il segno di un intero paese politicamente sull’orlo della crisi di nervi.
Il problema riaperto dall’intervista di D’Alema è quello di una coalizione che nei suoi intellettuali così come nel suo blocco sociale più largo non ha ancora saputo separare il grano della politica dal loglio di quella che Gramsci chiamava la “paura dei pericoli”. Una coalizione che dovesse misurarsi ogni giorno con il sospetto del tradimento, continuamente alimentato all’interno del suo stesso popolo, non potrebbe durare a lungo nemmeno se avesse una maggioranza di cento seggi alla Camera e duecento al Senato. Questo è il nodo non sciolto che dal fallimento della bicamerale alla caduta del governo Prodi è arrivato al pettine del centrosinistra in questi giorni.
In palio c’è la definitiva uscita di scena di Silvio Berlusconi. Le ultime speranze di restare a galla del Caimano, infatti, sono legate al prolungarsi di questa fase opaca, alla possibilità di dividere gli avversari con offerte di collaborazione biforcute, al ripetersi nel centrosinistra di quella dinamica autodistruttiva che già una volta consegnò a Berlusconi il governo del paese con una maggioranza schiacciante. Fuori dalla palude di questi giorni, la leadership del Cavaliere tornerebbe inevitabilmente in discussione e la crisi del centrodestra diverrebbe irreversibile. Il referendum sulla devolution non è lontano.
Fortunatamente a questa sfida cruciale la sinistra riformista arriva in condizioni assai migliori di quanto non fosse nel 2001, all’indomani della vittoria berlusconiana e dinanzi al montare della contestazione da parte di tanti movimenti e aspiranti regicidi, oggi passati in gran parte a più miti consigli comunali. La linea tenuta dall’Unità anche in questo frangente, così come al tempo del grande linciaggio dei giornali confindustriali contro i Ds sul caso Unipol, mostra quanta acqua sia passata sotto i ponti. Dunque la battaglia può essere vinta, se solo si avrà il coraggio di darla.
La prova di forza che attende il Professore è tutta qui. La costruzione del partito democratico, la formazione del nuovo governo e il varo dei provvedimenti necessari a fare uscire il paese dal declino economico sono tutte variabili dipendenti di questa battaglia, che solo Romano Prodi ha la forza per affrontare. Una forza che gli viene da quei quattro milioni di elettori che contro tutte le previsioni interessate e le facili ironie dei grandi giornali hanno votato per lui alle primarie. Romano Prodi oggi ha l’autorità necessaria per farcela, a patto di dismettere per sempre i panni del tecnico venuto a rimettere in sesto la coalizione e il paese come un medico pietoso, per vestire quelli del leader politico. Solo così, infatti, potrà affrontare i difficili passaggi che attendono il centrosinistra, libero dal potere di ricatto dei tanti attori di quel dibattito pubblico che sono parte essenziale della sua constituency e che tanta influenza hanno sulla formazione delle sue idee dominanti. Ne ha tutto l’interesse. Speriamo ne abbia anche la volontà.