Quinto capitolo in studio della loro discografia, “Push The Button” (2005) ripropone la miscela sonora ambigua e astuta dei Chemical Brothers, ovvero Tom Rowlands e Ed Simons. Ex-studenti di Storia all’Università di Manchester, crescono musicalmente nei nightclub locali a dosi di “balearic” (originario di Ibiza, un insieme di house music, disco italiana, groove/jazz/funk, hip hop e dance alternativa – definizione di All Music) che fondono in un caleidoscopico interesse per generi e gruppi diversi (dai My Bloody Valentine ai Public Enemy, dai Kraftwerk ai Jesus And The Mary Chain, senza dimenticare i New Order di “Tecnique”) per ottenere un composto a bassa fedeltà stilistica e alta gradazione sonora: dance, elettronica, rap, rock vengono con disinvoltura ripresi, copiati, destrutturati e strumentalizzati (nei due sensi); il risultato finale crea una brillante illusione di originalità che l’ascolto approfondito non riesce del tutto a dissipare in un patchwork di citazioni. Con intento meno sperimentale dei Pink Floyd ma con maggiore spudoratezza, i Fratelli Chimici eccedono in distorsioni, ripetizioni, echi; una formula che, in apparenza, non ha segreti, eppure lascia aperto il dubbio sull’autenticità delle loro intenzioni. Sperimentatori alla ricerca di un suono frattale? Impiegati di una multinazionale farmasonora, dediti alla rigenerazione di ingredienti scaduti? Insomma, più furbi o più bravi?
Tutt’e due, probabilmente. Poiché di chimica e alchimia si tratta, non si può escludere che la formula includa una manciata di entrambi, più qualcos’altro. Un certo senso della misura a compensare una discontinua tensione creativa, ad esempio; la capacità di “dare corpo” a un suono, in superficie, rarefatto e algido. Quando lo shaker funziona, come nell’esordio “Exit Planet Dust” (1996) e – alla perfezione – nel successivo “Dig Your Own Hole” (1997), i Chemical servono un cocktail gradevolissimo, in grado di soddisfare i palati colti come quelli incliti. Non a caso, oltre al successo di pubblico, godono di un certo favore della critica che perdona loro ciò che ad altre band è costato la fucilazione (verbale). Quando, viceversa, lo shaker non è stato agitato a sufficienza, il bicchiere si riempie a metà: “Surrender” (1999) e “Come With Us” (2002) non hanno la freschezza e la calcolata spontaneità dei precedenti e “Push The Button” conferma, per ora, un latente trend in discesa. Momenti interessanti e coinvolgenti (l’iniziale “Galvanize”, l’ossessiva “Believe”) si alternano a cadute nel soporifero, al punto di pensare a un nuovo gruppo, i Chemical Bothers (to Bother = infastidire).
Che gli effetti della formula non siano permanenti?