Un amico, incautamente, mi ha chiesto martedì scorso, all’indomani della pazzesca notte elettorale, se a mio avviso ci fosse una metafora sportiva per quel che era successo tra Berlusconi e Prodi. Ci ho pensato su un po’, ed ecco.
Correva l’anno 1994, e si correva, come ogni anno, il Giro delle Fiandre, una delle corse più prestigiose, difficili e impegnative del calendario internazionale, uno dei cinque “monumenti” del ciclismo, una corsa che, da sola, può dare lustro a una carriera.
A un certo punto, si ritrovano in testa in quattro. Gente forte, ben protetta dalle rispettive squadre: corsa chiusa. Dei quattro, due sono campioni, ma in questa storia figurano da comprimari. Li citiamo adesso, per dovere di cronaca: Franco Ballerini, italiano all’anagrafe, ma belga nell’anima, capace di esaltarsi in quelle due settimane al nord sulle pietre tra la Francia e le Fiandre; Andrei Tchmil, bizzarro apolide di talento proveniente dall’universo ex-sovietico, grande passista. Quei due, insieme, hanno vinto qualcosa come tre Roubaix, una Sanremo, un Fiandre (non quella volta, però) e altre corse ancora. Ma stavolta, come già detto, finiscono per fungere da comprimari, vista la classe degli altri due.
Già, gli altri due. Uno è il campione uscente: Johan Museeuw, belga, veloce, dinamico, elastico, fatto apposta per correre sulle pietre sconnesse del pavé, uno che si esalta nella difficoltà, nella lotta, nella disfida tignosa. Uno un po’ bastardo, cinico, impresentabile, e per questo capace di grandi vittorie. L’altro è uno che non ti aspetti. Nel senso che non ti aspetteresti di trovarlo lì, sul pavé. E nel senso che quando l’aspetti poi non arriva mai, ma magari arriva proprio quando, appunto, non l’aspetti. L’altro è Gianni Bugno.
Bugno veniva da un periodo triste e sfigato: aveva allora solo trent’anni, ma molti già dicevano che la sua carriera avesse imboccato la fase discendente. Aveva avuto una grande fiammata qualche anno prima. Sembrava il nuovo Hinault: aveva vinto la Sanremo, il Giro e la Coppa del Mondo nel ’90, era stato per due anni il numero uno della classifica UCI, si era piazzato al Tour nel ’91 e nel ‘92 e sembrava destinato anche a vincerlo, un giorno. Aveva dominato alla grande due mondiali consecutivi. Poi, all’improvviso, la crisi. La testa. Non girava più. Niente più fiducia nei propri mezzi, peraltro prodigiosi. Distrutto da rivalità con gente del suo stesso rango come Indurain, ma anche con plebei del pedale come Chiappucci, generosi e coraggiosi finché si vuole, ma dotati di un centesimo del suo talento puro.
Ma torniamo a quel Fiandre. I quattro vanno via che è un piacere, affrontano insieme i muri di pietre, si preparano a un arrivo in volata. Ai tifosi di Bugno già sembrava pazzesco rivederlo, finalmente, là davanti, e in compagnia di quei tre. E il solo vederlo là faceva presagire grandi cose: Bugno era uno che, quando decideva di andare, andava come nessuno. Vederlo pedalare sui muri, leggero e immobile come una macchina fatta per generare velocità e potenza, era un piacere quasi erotico. Ballerini e Tchmil se li sarebbe mangiati in volata con una gamba sola, era pacifico. Museeuw, semmai, destava qualche residua preoccupazione: dopotutto quella, il Fiandre, era la sua corsa. Sua di Museeuw, nato e cresciuto a pochi chilometri da quegli strappi e da quel traguardo. Poi, come già s’è detto, il belga era uno da temere, un lottatore, uno che non si dava mai per vinto.
Ecco, finalmente, il lungo rettilineo d’arrivo a Meerbeke. Bugno parte lunghissimo, ai trecento metri, e subito, di potenza prende cinque, sei metri a tutti. Era così, Bugno. Quando aveva voglia di pedalare, quando la testa gli reggeva, quando si convinceva di essere il più forte (qual era, in effetti) trionfava in modo imbarazzante. Dietro, Ballerini e Tchmil si rassegnano già ai duecento metri e si rialzano. Niente da fare. Troppo forte, quello là di cui già vedono solo i glutei appena alzati dalla sella.
Però c’è Museeuw. Il quale barcolla, si dimena, s’agita, e intanto resta lì a cinque metri.
Duecento all’arrivo. Bugno è dritto e perfetto sulla bicicletta. Sembra non faccia fatica. È lanciato a sessanta all’ora e nemmeno sembra che si muova. Se gli si mettesse una livella sulla schiena, la bolla resterebbe ferma al centro, senza oscillare. Dietro, Museeuw è come una marionetta tarantolata alla quale abbiano tagliato qualche filo. È brutto, ciclisticamente parlando, di ogni possibile bruttezza. Se gli si mettesse una livella sulla schiena, verrebbe sbalzata via a decine di metri di distanza in un istante. I metri di vantaggio di Bugno, però, diventano quattro.
Cento all’arrivo. Bugno tiene perfettamente la sua traiettoria, tende al traguardo per la via più breve. Le due ruote della sua bicicletta disegnano una retta puntata all’orizzonte: se fossero impregnate di vernice, sull’asfalto rimarrebbe un’unica linea senza sbavature. Dietro, Museeuw oscilla paurosamente a destra e a sinistra, alzando e abbassando la testa per guardare se esista, purchessia, un refolo d’aria tra il treno in forma umana che ha davanti e la transenna, ove possa infilarsi in un guizzo disperato, facendo sobbalzare e strisciare la bicicletta, tanto che sembra possa ruzzolare per terra da un momento all’altro. Le due ruote della sua bicicletta disegnano qualcosa che non pare nemmeno opera umana: se fossero impregnate di vernice, sull’asfalto rimarrebbe un ghirigoro impazzito, una serie di tratti sghembi di ellissi e iperboli. I metri di vantaggio di Bugno, però, diventano tre, e poi due.
Cinquanta all’arrivo. I tifosi di Bugno in tutto il mondo ringraziano gli dèi del ciclismo. Il loro campione ha vinto. Ha vinto il Fiandre. Il Fiandre, cazzo. È la resurrezione. La primavera. L’estasi. Il compimento di una giustizia troppo a lungo negata. Il tifoso di Bugno si sente antropologicamente superiore a tutti gli altri tifosi, perché sa che tifa per il migliore, per il più forte, per il più bello. Ed ecco che il più bello, finalmente, torna a vincere. Torna al posto che gli compete. Al comando. Sul gradino più alto del podio. Era ora. Erano anni che s’aspettava, ormai. Dietro, Museeuw sa che non può contare su altro se non sulla sua tigna. Sa che Bugno è il più forte di tutti. Sa, però, che Bugno non sa di esserlo, perlopiù. E spera l’insperabile: che Bugno se ne scordi in quei cinquanta, quaranta, trenta, venti metri che mancano all’arrivo. Sembrerebbe di no, in effetti. Sembrerebbe, quel giorno, uno di quei giorni in cui Bugno sa di essere Bugno. Sa che gli dèi del ciclismo, suoi simili, sono dalla sua parte. Ma Museeuw continua a sperare, anche perché Bugno, ormai, è avanti solo di un metro. E non se ne avvede.
Dieci all’arrivo. Bugno ritiene di avercela fatta. Quell’angolino buio e recondito della sua anima nera nel quale pensa di sé ciò che di lui pensano i suoi tifosi si fa largo e sprizza in superficie. Il campione si rilassa: capisce di avere vinto il Fiandre. Il Fiandre, cazzo. Dopo anni di vacche magre. Di umiliazioni. Di disconnessioni mentali. Di complessi d’inferiorità resi più gravi e pazzeschi proprio da quel che tutti dicevano di lui: che fosse il più forte, di gran lunga. Il più forte di tutti. E allora, vadano al diavolo i recessi della psiche, Bugno che fa? Smette di pedalare, distende i suoi magnifici lombari, alza le braccia al cielo. Dietro Museeuw s’ingobbisce ancora di più, afferra il manubrio, lo getta in avanti con tutta la forza dei suoi bicipiti, alzando al contempo il culo dal sellino e lasciandolo scivolare fin quasi ad appoggiarlo sulla ruota posteriore, perdendo quasi il controllo della bicicletta che in effetti sbanda e quasi si rovescia alla sinistra del Bugno già trionfante.
Quel che accadde nei successivi due secondi è da leggenda: Bugno vede con la coda dell’occhio la ruota di Museeuw che gli spunta canagliescamente da sinistra e che lo raggiunge. Guarda in basso: mancano ancora dieci centimetri. Impazzisce di spavento. Fa una smorfia di terrore. Abbassa il braccio sinistro un po’ per riprendere in mano il manubrio nel tentativo di rilanciare la sua bicicletta, un po’ forse in un gesto istintivo per afferrare l’avversario e non farsi superare, ché non sarebbe giusto. Poi, la linea del traguardo scorre sotto a entrambi.
Seguirono tre minuti di pura sospensione temporale, nei quali i giudici di gara compulsarono il fotofinish.
Vinse Bugno, per un centimetro. Come ebbe a dire lui stesso poche ore dopo, smaltito lo spavento, tutti si sarebbero ricordati di quel Fiandre (il Fiandre, cazzo) più per la sua figura da pirla che per la vittoria, le braccia alzate e la faccia orripilata sulla linea del traguardo, resa immortale in mille fotografie.
Bugno da quel momento non vinse più nessuna corsa di quel valore, e pochino in generale. Museeuw tornò al Fiandre l’anno successivo e staccò tutti. Ognuno decida se la metafora regge. E, semmai, fin dove regga.