Il cuore mi stava appassendo, nella vecchia band, e avevo bisogno di un cambiamento, musicale ed emotivo. Devo seguire ciò che amo e che mi appassiona e questo è la musica più brutale ed estrema, che non si cura di passare in radio o di collocarsi in una scena”.
Also sprach Bradely “Dez” Fafara, frontman dei disciolti Coal Chamber e attuale spirito guida maligno dei Devildriver; anche se, per la verità, proprio male alla sua carriera i Coal non hanno portato. Formatisi nel ‘94 e protagonisti, con Korn e Deftones, della scena nu-metal, raggiungono una solida fama con estenuanti tour e tre album di successo (“Coal Chamber”, ’97; “Chamber Music” ’99; “Dark Days”, ’02) che permettono al nemico-della-scena-pubblica nr.1 di decretare lo scioglimento dall’alto di un considerevole numero di copie vendute. Sventolando il vessillo della passione e della sincerità (“come descriveresti i Devildriver in poche parole?” gli viene chiesto nell’intervista già citata: “Heavy, brutal and honest” è la risposta), arruola i chitarristi Evan Pitts e Jeffrey Kendrick, il bassista Jon Miller e il batterista John Boecklin per la fusione della campana demoniaca (“devildriver” è il nome che le streghe attribuiscono alle campane utilizzate per evocare i demoni durante gli incantesimi). Esordio nel 2003 con un occhio ancora rivolto al recente passato e tiepida accoglienza critica; bis a inizio 2006 con “The Fury Of Our Maker’s Hand”, un cambio in line-up (Mike Spreitzer al posto di Pitts) e intenzioni più chiare e marcate: il sound oscilla tra speed e black metal, senza trascurare passaggi più heavy in senso tradizionale e richiami al decennio trascorso; voce e chitarre si rincorrono in una gara a chi raggiunge il più alto livello di abrasività, ma senza esagerare: non di rado, Devildriver smussa i propri angoli mirando più all’effetto piacevole che a quello disturbante. Il tutto, accompagnato e sostenuto dall’ottimo, implacabile drumming di John Boecklin.
Pur non mancando di fascino, insomma, la furia di mr Fafara ha un suo preciso metro: c’è qualche spiraglio di sole californiano (ovvio, da lì proviene tutto il gruppo) nei richiami black alla Dimmu Borgir di “Death Cult Armageddon”; e il cantato growl deborda sovente con l’aiuto degli effetti. Anche la produzione molto pulita che permette di apprezzare i singoli e l’insieme contraddice le intenzioni d’incontrollata ferocia che le canzoni vorrebbero suggerire. Alla fine, tuttavia, la padronanza tecnica e l’esperienza aiutano a raggiungere un risultato di buon livello, dove passione e calcolo convivono senza annullarsi a vicenda; lo stesso non può dirsi, però, delle liriche dove Dez e soci conquistano la palma della banalità e del già sentito. Una raccolta di frasi gergali, atteggiamenti macho e minacce a un non meglio identificato “nemico” non fa un testo, neanche con una buona interpretazione. L’iniziale “End Of The Line” spicca insieme a “Just Run” e “Impending Disaster”, dimostrando le potenzialità dei Devildriver; interessanti anche “Before The Hangman’s Noose” e la title-track, dal riff accattivante; troppo ammiccanti invece “Bear Witness Onto” e “Grinfucked”; onesto e brutale il resto.
Per essere i paladini del “suono quello che mi pare oltre ogni limite”, i Devildriver guidano con attenzione e prendono le curve scalando – ciò che è saggio sulla strada ma inconcludente su nastro; rimane la controprova “on stage”, dimensione che il gruppo sembra prediligere: sopra un palco, senza incantesimi da studio, o si rilascia davvero la furia o si possiede solo volume. E per quello, basta girare la manopola.