Nelle righe che seguono vogliamo avanzare l’ipotesi, puramente ricostruttiva e mancante di qualsiasi notizia riservata, che nella notte tra venerdì e sabato scorso il capo del governo uscente, dopo essersi accorto che Andreotti poteva essere eletto veramente alla presidenza del Senato (e non si limitava quindi a fargli fare un figurone davanti agli italiani moderati), sia stato costretto a correre in soccorso del suo avversario Romano Prodi, indirizzando sei dei voticini da lui controllati al Senato verso il candidato del centrosinistra.
Ma procediamo con ordine. Il giorno della riapertura del Parlamento della Repubblica tutti sapevano che la vera battaglia tra gli schieramenti si sarebbe combattuta nella camera alta. Era nella scheda elettorale del Senato che il centrosinistra aveva commesso un clamoroso errore politico (la mancata presentazione del simbolo dell’Ulivo) pagato a caro prezzo con una maggioranza di seggi irrisoria e ottenuta in modo rocambolesco grazie al nuovo voto all’estero e al sostegno di alcuni senatori a vita. Sulla carta la coalizione uscita vincitrice dalle urne può contare sui seguenti numeri: 154 senatori eletti in Italia, 4 eletti all’estero, 2 senatori a vita provenienti dalla propria area (Napolitano e Colombo) e uno che gli si è avvicinato esplicitamente (Scalfaro): in totale 161 voti, uno in meno della maggioranza assoluta dell’assemblea. Nell’altro emiciclo sono seduti 155 senatori eletti in Italia, 2 eletti all’estero (il senatore Pallaro è sempre stato considerato dal centrosinista come esponente dello schieramento avversario durante la campagna elettorale; la sua dichiarazione di indipendenza seguìta al voto è quindi una novità): totale 157. Restano quattro senatori a vita non direttamente schierati: Andreotti, Cossiga, Pininfarina e Levi Montalcini; ma uno di loro è stato immediatamente accalappiato dal centrodestra (come candidato alla presidenza) che ha portato quindi il proprio bacino elettorale nella prima battaglia d’aula a 158 voti.
Ammettendo il caso che tutti gli altri tre indipendenti abbiano votato per il candidato alla presidenza del centrosinistra (e due di loro lo hanno dichiarato apertamente), Franco Marini sarebbe dovuto arrivare a 164 voti: ma il numero finale uscito alla terza votazione (quella di sabato mattina) è di 165. Bisognerebbe quindi concludere che almeno un senatore di centrodestra abbia votato per Marini, a cui va poi aggiunta una scheda bianca.
La lettura più semplice di ciò che è avvenuto è quindi la seguente: alla terza votazione il centrosinistra è stato compatto e ha dato tutti i suoi voti al candidato indicato da Prodi e dai partiti della coalizione; tutti i senatori a vita hanno sostenuto il candidato della maggioranza tranne uno che era diventato nel frattempo candidato della minoranza; un eletto di area di minoranza ha votato bianco; e un senatore di centrodestra ha deciso di cambiare campo, sulla base di una sua posizione individuale. Ma perché le cose fossero andate così sarebbe stato necessario che nessun senatore di centrosinistra (tra cui tanti ex dc) avesse votato Andreotti: cosa che in realtà appare piuttosto inverosimile. E quindi, anche solo per amore di fantapolitica, procediamo con la nostra dietrologia.
Altre interpretazioni possono essere avanzate sulla base della votazione di venerdì notte e su alcune considerazioni di scenario. Come tutti sappiamo venerdì alla fine del secondo scrutinio Scalfaro decide di far ripetere il voto; Franco Marini ha fatto il pieno dei suoi voti arrivando a quota 162, ma tre schede gli vengono contestate per un pacchiano errore nell’indicazioni del nome di battesimo. La commissione elettorale non giunge a una conclusione unanime sulle tre schede e il voto si ripete. Tutti pensano: se si è trattato di un errore (o di un segnale interno a cui si può dare risposta con una trattativa), i tre voti (eventualmente dopo che si siano chiusi i conciliaboli) rientreranno e Marini avrà i numeri: e invece no. Marini è di nuovo a 160: ricompare per sfregio una scheda col suo nome di battesimo errato (nuovamente contestata ma a questo punto ininfluente), e una scheda equivoca col solo cognome. Nel frattempo si ingrossano le bianche, che tornano a essere cinque, tonde tonde, come nella prima votazione. In campo avverso Andreotti arriva a 155 voti. Se si fa una banale addizione si può concludere che l’assemblea si preparava a eleggerlo presidente: i suoi 155 voti sommati alle cinque bianche (che potevano essere state parcheggiate in attesa della terza votazione) e alle due nulle ormai non più attribuibili a errori o a richieste di attenzione (ma a scherno) dà infatti il totale magico di 162, ovvero la maggioranza assoluta (ma basterebbe anche un voto in meno; col pareggio infatti Andreotti sarebbe passato per la maggiore anzianità). Chiarisco meglio: i 155 voti validi chiaramente collocabili nell’area dell’opposizione, più le due nulle, che a questo punto potevano solo venire dal centrodestra, ridanno il totale di 157, ovvero i senatori della Casa delle libertà. Il problema era in quelle cinque bianche, che venivano dunque dall’area del centrosinistra: i senatori dell’Udeur si precipitavano dai colleghi di maggioranza a spiegare che il problema non veniva da loro, visto che sono solo in tre e che tutte le loro richieste erano state accolte, ma da altri. Chi? I senatori di Rifondazione che volevano incassare il voto alla presidenza della Camera prima di far passare Marini? Possibile. Ma è possibile anche che quelle cinque schede si apprestassero a recare la dicitura Andreotti nella terza votazione.
Cosa sarebbe successo in caso di elezione dell’antico collaboratore di De Gasperi alla presidenza del Senato? Ovviamente non si sarebbero sciolte le camere (mai successo subito dopo il voto; tanto meno sarebbe accaduto ora con il Parlamento fatto di miracolati dalle liste bloccate). Dopo l’elezione del Presidente della Repubblica si sarebbe varato un governo tecnico, con il solito argomento delle urgenze di finanza pubblica, e sarebbe iniziata l’opera di scomposizione dei due poli usciti dalle urne. Avrebbe insomma preso corpo il progetto di quel partito collocabile al di fuori dei due schieramenti che, benché assolutamente minoritario nel paese (visto il risultato elettorale), è assai abile nello sfruttare le debolezze altrui: i due vincitori della contesa democratica, Prodi e Berlusconi, ne sarebbero diventati con un gioco di prestigio i maggiori sconfitti, e avrebbe avuto inizio la loro definitiva liquidazione.
Non è quindi impossibile che sia stato il capo dell’opposizione a trovarsi costretto ad aiutare il futuro capo del governo. Un’iniziativa del vertice di Forza Italia può essere immaginata anche tenendo conto di un fatto ulteriore: nel frattempo in questa direzione si era già mosso pubblicamente (come suo costume) l’ex Presidente della Repubblica Cossiga, deciso a salvare la “sua” Seconda Repubblica dall’avversario di sempre (Andreotti appunto) svolgendo il ruolo, come già avvenuto altre volte, di traghettatore di voti da uno schieramento all’altro. Meglio quindi per Berlusconi continuare a controllare dall’alto il gruppo parlamentare, senza ingerenze altrui. Proseguiamo nella ricostruzione immaginosa: Berlusconi nella notte tra venerdì e sabato avrebbe dato personalmente indicazione di superare quelle cinque bianche con sei voti a Franco Marini provenienti da Forza Italia. E negli ambienti della politica romana non a caso circola la voce di sei schede a Marini provenienti dal centrodestra.
Se così stanno le cose (ma è come abbiamo detto più volte solo un’ipotesi) appare come veramente risibile la cagnara sollevata dai senatori della Casa delle libertà nella seduta di sabato mattina con continue contestazioni del presidente provvisorio e interruzioni delle operazioni di scrutinio. Assomiglierebbe a quelle partite dei campionati inferiori in cui, proprio quando le squadre si sono già accordate sul risultato, ad uso del pubblico pagante viene allestita la più rocambolesca commedia di spinte, insulti, falli e tutto l’armamentario di finto agonismo che porta comunque il finale nella direzione pattuita, e quattro espulsi per parte, con la faccia inebetita di qualche giocatore straniero a cui nel frattempo non si è riusciti a spiegare nulla per l’impossibilità di una comunicazione linguistica riservata.
Proseguendo nella nostra ipotesi, ci chiediamo: quanto potrà durare una simile commedia da parte del centrodestra? Almeno per i primi anni di legislatura, quelli in cui non maturerebbe il diritto alla pensione dei parlamentari, e quindi è di fatto impossibile tornare al voto (ma che queste camere possano decidere anche dopo di sciogliersi anticipatamente ci sono forti dubbi), la Casa delle libertà dovrebbe continuare a fare un’opposizione televisivamente gladiatoria, ma praticamente inesistente, dal momento che dovrebbe correre sottobanco in soccorso del governo al Senato in tutti i momenti veramente critici, affidandosi a Prodi come proprio campione.
Berlusconi contesta il voto popolare, denuncia brogli e si rifiuta di legittimare Prodi: in questi giorni il suo comportamento può avere un qualche effetto sul corpo elettorale in vista delle contese amministrative. Ma sarebbe il caso di smetterla. Chi pensa che il futuro dell’Italia sia in un sistema politico forte, con struttura bipolare e organizzato su partiti veri legittimati dai cittadini farebbe meglio a parlare chiaro e a fare politica, e non limitarsi a mettere bussolotti anonimi nelle urne. Ma forse questo lungo ragionamento è solo frutto di fantasia, e quindi continuiamo pure così. ■